E Mengele decolorò con l’acido gli occhi degli zingari biondi

Sette coppie di gitani “ariani” furono sottoposti a esperimenti atroci dal medico SS mentre una pittrice ebrea era costretta a ritrarli. Ora le loro storie riaffiorano dagli archivi
L’occhio era molto importante, spiegò il dottor Mengele: lavorando con bisturi e solventi sull’iride, si poteva trasformare in grigia o in azzurra, da nerastra che era. Infatti quelli erano zingari «buoni». I loro avi non erano forse partiti dall’India del Medioevo, dove già si venerava la svastica? E nei loro 60 dialetti non c’era ancora un po’ di sanscrito, di punjabi e bangali? Dunque erano indoeuropei: pochissimi, quasi sempre «asociali»; ma ariani. E come gli ariani veri, come Mengele o Hitler, non potevano avere occhi neri, ma azzurri: nei laboratori di Auschwitz, iniziarono così gli esperimenti. «Tutti lo sapevano. E me li ricordo bene, i gitani "puri"», racconta la pittrice ebrea Dina Gottliebova, «perché Mengele mi obbligava a ritrarli, mentre lui misurava i crani. Gli altri, i "misti", dopo un po’ che arrivavano non li vedevamo più». Furono 20.078 gli zingari morti ad Auschwitz, su 23 mila internati. E circa mezzo milione in tutta l’Europa, forse il 90% del totale: si chiamò Porraimos, in gitano «grande divoratore»; lo sterminio dei Rom, dei Sinti, dei «manush» (dal tedesco «mensch», «uomini», così li chiamavano in Germania). Eccoli, i loro ritratti dipinti da Dina, come li ha mostrati all'America la Tv pubblica Pbs, in 57 minuti di documentario intitolato Porraimos: gli zingari d'Europa nell’ Olocausto. Volti tristi o rabbiosi, musiche di violini zigani, poi corpi che si affacciano da foto in bianco e nero o filmati girati da «cineama­tori» delle SS. E bambini che giocano, senza sapere. Nell'agosto 1944, ad Auschwitz, quelli del «popolo del vento» erano quasi tutti morti. Nel loro settore rimasero 7 coppie di gemelli, scelti da Mengele per studi di «eugenetica», insieme con un altro medico e due «infermieri». E con Dina Gottliebova: «Da bambina, nelle campagne cecoslovacche, gli zingari li avevo visti passare in carovana, mi affascinavano. Li ritrovai là ad Auschwitz. Dipingevo le baracche dei loro bambini con scene di prati e montagne, o con figure di Biancaneve». Anche i bambini morivano, come raccontano alle telecamere altri sopravvissuti. Una donna descrive dei prigionieri obbligati a tuffarsi in uno stagno: e i piccoli zingari che non sapevano nuotare abbandonati a se stessi dalle guardie, e i genitori costretti a non intervenire. I ragazzini che riuscivano a toccare la riva dovevano poi raccogliere legna per bruciare i corpi fradici degli altri. «Mia madre», racconta un'altra testimone, «partorì me e mia sorella gemella senza problemi. Ma poi lei fu sterilizzata e noi fummo portate via, dai genetisti che volevano studiarci. L'ultima volta che vidi mia sorella, fu in una di quelle cliniche». Queste testimonianze coincidono in parte con quelle dei verbali di Norimberga, diffusi su Internet dall'Università di Harvard. Furono circa 30 mila gli zingari catalogati dagli studiosi nazisti che giravano di lager in lager alla ricerca del «gitano buono». Himmler, il capo supremo delle SS, ne era certo: «I gitani puri vanno messi in riserve speciali, per la loro presunta origine ariana». Gli altri furono inghiottiti dalla storia. Che ancor oggi discute sulla loro sorte: per alcuni studiosi la persecuzione nazista fu motivata da discriminazioni sociali, culturali ed economiche, più che da vero odio di razza. Per altri, il fattore razzista prevalse. Scrive Michael Burleigh nella sua Storia del Terzo Reich: «Nel 1930, alcuni residenti a Francoforte sul Meno si lamentarono degli "zingari" che si trovavano fra loro. Sporcavano la zona con rifiuti organici, disturbavano con zuffe. Quando le autorità cittadine lasciarono che il problema si trascinasse, fu il Partito nazista a occuparsi della situazione». Chiunque abbia ragione, trionfò il Porraimos, il grande divoratore. «Questa gente discende dai paria indiani», diceva Robert Ritter, direttore dell'Ufficio per l’igiene razziale. «Sono inclini alla criminalità». Per Adolf Eichmann, il ragioniere dell'Olocausto, bastava aggiungere «4 vagoni ai treni con gli ebrei», e tutto si sarebbe risolto. «I fascisti cacciavano gli zingari come selvaggina», scrive Anatoly Kuznetsov raccontando la strage di Babi Yar, dove il 29-30 settembre 1941, insieme con 33.371 ebrei, furono sterminate anche intere tribù gitane. Nell'inverno ‘42, da Simferopoli in Crimea, il comandante dell'Unità speciale Einsatzgruppe D riferiva a Berlino che «qui il problema è stato risolto»; ultimo rendiconto: «Giustiziati 810 elementi». L’ 8 aprile ‘42 tutta la Crimea veniva dichiarata «libera da ebrei e zingari»: e «la popolazione non ha mostrato alcuna particolare ansietà sul fatto che gli zingari abbi­ano dovuto condividere il fato degli ebrei». Del resto anche Heinrich Lohse, commissario del Reich per il Baltico, era stato chiaro nel suo «ordine confidenziale del 24 dicembre 1941» alle SS: «Gli zingari che vagabondano per il Paese sono un doppio pericolo. Possono avere malattie, il tifo. Sono inaffidabili, non si può dare loro un lavoro utile. E danneggiano la causa germanica diffondendo notizie ostili. Ordino perciò che siano trattati nella stessa maniera degli ebrei».
di Luigi Offeddu. Da Sette/Corriere della sera, 25 settembre 2003

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