LA STRAGE DI PIAZZA FONTANA

12 dicembre 1969 un ordigno contenente sette chili di tritolo esplode alle 16,37, nella sede della Banca Nazionale dell’Agricoltura, in piazza Fontana, a Milano. Il bilancio delle vittime è di 16 morti e 87 feriti.
Nei giorni successivi alla strage, solo a Milano, sono 84 le persone fermate tra anarchici, militanti di estrema sinistra e due appartenenti a formazioni di destra. Il primo ad essere convocato è il ferroviere anarchico Giuseppe Pinelli, chiamato in questura lo stesso giorno dell’esplosione. Dopo tre giorni di interrogatorio non viene contestata, a Pinelli, nessuna imputazione eppure non viene comunque rilasciato. Ad interrogarlo è il commissario Calabresi il quale guida l’inchiesta sulla strage.
15 dicembre 1969, tre giorni dopo l’arresto, Pinelli muore precipitando dalla finestra della Questura. La versione ufficiale parla di suicidio, ma i quattro poliziotti e il capitano dei carabinieri Lo Grano, presenti nella stanza dell’interrogatorio al momento della morte del ferroviere, saranno oggetto di un’inchiesta per omicidio colposo. Verrà poi aperto nei loro confronti un procedimento penale per omicidio volontario. Nei confronti del Commissario calabresi, che non si trovava nella stanza ,si procederà per omicidio colposo. Tutti gli imputati verranno poi prosciolti nel 1975, perché "il fatto non sussiste". Intanto gli inquirenti continuano a seguire la pista anarchica.
16 dicembre 1969 Viene arrestato Pietro Valpreda appartenente al gruppo 22 Marzo, il quale viene accusato di essere l’esecutore materiale della strage. La conferma di tali accuse è data da un tassista, Cornelio Rolandi, che racconta di aver portato Valpreda il 12 dicembre sul luogo della strage e da Mario Merlino anch’egli militante nel gruppo 22 marzo, che però si scoprirà poi essere un neofascista infiltrato dai servizi segreti. Mentre si prosegue ad indagare negli ambienti anarchici, si scopre che le borse utilizzate per contenere l’esplosivo sono stata acquistate a Padova e che il timer dell’ordigno proviene da Treviso. Da questi indizi si arriverà dopo più di un anno ad indagare anche negli ambienti di eversione nera. I primi neofascisti ad essere individuati come coinvolti nell’attentato sono Franco Freda e Giovanni Ventura. Freda nasce ad Avellino e vive a Padova dove milita nella gioventù missina alle superiori e nel Fuan all’università. Abbandonerà poi l’Msi per aderire all’organizzazione Ordine Nuovo guidata da Pino Rauti. Grande ammiratore di Hitler ed Himmler è convinto sostenitore della supremazia della razza ariana. Ventura nasce a Treviso, milita nell’Azione cattolica e poi nell’Msi. È amico di Freda e come lui ha una formazione ideologica di stampo neonazista. Adesso la pista che si segue è quella nera, e l’indagine coinvolge nuovi personaggi come Guido Giannettini appartenente al Sid esperto e studioso di tecniche militari. Il suo nome viene coinvolto nelle indagini dopo le dichiarazioni di Lorenzon, un professore di Treviso amico di Giovanni Ventura, il quale riferisce al giudice Calogero alcune confidenze fattegli da Ventura circa gli attentati dinamitardi avvenuti i quel periodo. Lorenzon prende questa iniziativa il 15 dicembre ‘69, giorno in cui si reca dall’avvocato Steccarella, a Vittorio Veneto, dove stende un memoriale che poi verrà consegnato alla magistratura. Valpreda si trova ancora in carcere quando nel 1971, si scopre per caso un arsenale di munizioni NATO presso l’abitazione di un esponente veneto di Ordine Nuovo. Tra le armi ritrovate sono presenti delle casse dello stesso tipo di quelle utilizzate per contenere gli ordigni deposti in Piazza Fontana. Quell’arsenale era stato nascosto da Giovanni Ventura dopo gli attentati del 12 dicembre ’69. I magistrati scoprono inoltre che il gruppo neofascista si riuniva presso una sala dell’Università di Padova messa a disposizione dal custode Marco Pozzan, anch’egli esponente di Ordine Nuovo e fidato collaboratore di Franco Freda.
23 febbraio 1972 inizia a Roma il primo processo per la strage, che vede come principali imputati Valpreda e Merlino. Il processo verrà poi trasferito a Milano per incompetenza territoriale ed infine a Catanzaro per motivi di ordine pubblico.
3 marzo 1972 Freda e Ventura vengono arrestati e con loro finisce in manette anche Pino Rauti, fondatore di Ordine Nuovo, su mandato del procuratore di Treviso, con l’accusa di ricostituzione del partito fascista, e perchè implicato negli attentati del’69 e nella strage di piazza Fontana. L’inchiesta è in mano ai magistrati milanesi D’ambrosio e Alessandrini, i quali decidono di rimettere in libertà Pino Rauti senza far cadere i capi d’accusa, per evitare che se Rauti fosse eletto deputato i fascicoli passassero ad una commissione parlamentare. Dalle indagini emerge sempre più chiaramente un collegamento fra Servizi segreti e movimenti di estrema destra. È infatti alla fine del 1972 che uomini del Sid intercettano il Pozzan , latitante dal giugno dello stesso anno, quando fu emesso nei suoi confronti un mandato di cattura per concorso nell’attentato di piazza Fontana, e dopo averlo sottoposto ad un interrogatorio ed avergli fornito un passaporto falso lo hanno fatto espatriare in Spagna. Il Sid interviene anche per Ventura all’inizio del 1972, quando questi, detenuto nel carcere di Monza, sembra voler cedere e rivelare alcune informazioni sulla strategia della tensione, gli viene fatta avere una chiave per aprire la cella e delle bombolette di gas narcotizzante per neutralizzare le guardie di custodia permettendogli la fuga. Siamo adesso alla volta di Giannettini, il quale, legato al Sid da un rapporto di collaborazione, dopo essere stato sospettato di coinvolgimento nella strage, viene indotto ad espatriare in Francia dove continuerà ad essere stipendiato dal Servizio.
20 ottobre 1972 Tre avvisi a procedere, per omissione di atti d’ufficio nelle indagini sulla strage di piazza Fontana, sono inviati a Elvio Catenacci, dirigente degli affari riservati del Ministero degli interni, al questore di Roma Bonaventura Provenza e al capo dell’ufficio politico della questura di Milano Antonino Allegra.
29 dicembre 1972 Torna libero Pietro Valpreda. Viene infatti approvata una legge che prevede la possibilità di accordare la libertà provvisoria anche per i reati in cui è obbligatorio il mandato di cattura.
18 marzo del 1974 Il processo riprende a Catanzaro il ma dopo trenta giorni ci sarà una nuova interruzione per il coinvolgimenti di due nuovi imputati: Freda e Ventura.
Catanzaro, 27 gennaio 1975 Al terzo processo sono imputati sia gli anarchici che i neofascisti. Anche questo procedimento viene interrotto, dopo un anno, per l’incriminazione di Giannettini.
Catanzaro, 18 gennaio 1977 Gli imputati sono: neofascisti, Sid e anarchici. La sentenza: ergastolo per Freda, Ventura e Giannettini, assolti Valpreda e Merlino.Gli imputati condannati con la prima sentenza verranno poi assolti tutti in appello, ma la Cassazione annullerà la sentenza proscioglierà Giannettini e ordinerà un nuovo processo.
Catanzaro, 13 dicembre 1984 inizia il quinto processo che vede come imputati Valpreda, Merlino, Freda e Ventura. Tutti assolti. La sentenza è confermata dalla Cassazione.
Catanzaro, 26 ottobre 1987 Al sesto processo gli imputati sono i neofascisti Fachini e Delle Chiaie.
20 febbraio 1989 gli imputati vengono assolti per non aver commesso il fatto
1990 le indagini riaperte dal Pubblico Ministero Salvini subiscono una svolta decisiva. Delfo Zorzi, capo operativo della cellula veneta di ordine Nuovo, per sua stessa ammissione, è l'esecutore materiale della strage. Zorzi dopo l’attentato riparò in Giappone dove tuttora vive protetto dal governo Nipponico che ha sempre rifiutato di concedere l’estradizione del neofascista.
5 luglio 1991 la sentenza di assoluzione per fachini e Delle Chiaie viene confermata dalla Corte d’assise d’appello di Catanzaro.
11 aprile 1995, a conclusione di quattro anni di indagini svolte sull' attivita' di gruppi eversivi dell' estrema destra a Milano, un' inchiesta parallela a quella sulla strage di Piazza Fontana, il giudice istruttore Guido Salvini rinvia a giudizio Giancarlo Rognoni, Nico Azzi, Paolo Signorelli, Sergio Calore, Carlo Digilio e Ettore Malcangi e trasmette a Roma gli atti riguardanti Licio Gelli per il reato di cospirazione politica per il quale, comunque, non si potra' procedere perche' il gran maestro della Loggia P2 non ha avuto l' estradizione dalla Svizzera per questo reato.
17 maggio 1995: arrestato l' ex agente della Cia Sergio Minetto.
10 novembre 1995: Il tg di Videomusic dice che il giudice Salvini 'si e' formato l' opinione "che l' autore della strage sarebbe Delfo Zorzi". Il giudice protesta per la fuga di notizie.
23 luglio 1996: arrestati Roberto Raho, Pietro Andreatta, Piercarlo Montagner e Stefano Tringali, accusati di favoreggiamento personale aggravato.
14 giugno 1997: il gip Clementina Forleo emette due ordini di custodia, uno per Carlo Maria Maggi, l'altro, non eseguito, nei confronti di Delfo Zorzi, da vari anni imprenditore in Giappone.
21 maggio 1998: La Procura di Milano chiude l'inchiesta sulla strage di Piazza Fontana (12 dicembre 1969 alla Banca dell'Agricoltura) e deposita la richiesta di rinvio a giudizio per otto persone, tra cui: Carlo Maggi, il medico veneziano a capo di Ordine Nuovo nel Triveneto nel 1969; Delfo Zorgi, neofascista di Mestre oggi miliardario in Giappone; Giancarlo Rognoni, milanese, allora a capo della '?Fenice''; Carlo Digilio, esperto di armi e esplosivi in contatto anche con i servizi segreti, che e' l'unico 'pentito' dell'inchiesta; e i due ex appartenenti ad Ordine Nuovo Andreatta e Motagner, accusati di favoreggiamento. I magistrati della procura milanese hanno tenuto aperto uno 'stralcio' riguardante Dario Zagolin, che secondo alcune testimonianze sarebbe stato in contatto con Licio Gelli, presunto stratega dei progetti golpisti che avrebbero fatto da sfondo alle stragi di quegli anni, e un altro riguardante la 'squadra 54', un nucleo speciale di quattro poliziotti dell' Ufficio Affari riservati del Viminale, spediti a Milano nei giorni dell'attentato di Piazza Fontana.
13 aprile 1999: con una serie di eccezioni preliminari comincia l'udienza preliminare del processo d'appello.
8 giugno 1999: il gip Clementina Forleo rinvia a giudizio l'imprenditore Delfo Zorzi, latitante in Giappone, il medico Carlo Maria Maggi e Giancarlo Rognoni, presunti responsabili, a vario titolo, di aver organizzato ed eseguito la strage di Piazza Fontana del 12 dicembre 1969 e Stefano Tringali con l'accusa di favoreggiamento nei confronti di Zorzi.
16 febbraio 2000: comincia in seconda sezione della Corte d' Assise di Milano il nuovo processo, ma la prima udienza dura solo 20 minuti per lo sciopero degli avvocati.
1 luglio 2001: la Corte di Assise di Milano condanna all' ergastolo Delfo Zorzi, Carlo Maria Maggi e Giancarlo Rognoni. Prescrizione per Carlo Digilio, esperto d'armi e collaboratore della Cia: ha collaborato e la corte gli ha riconosciuto le attenuanti generiche.
19 gennaio 2002. Depositate le motivazioni. I pentiti Digilio e Siciliano sono credibili.
6 luglio 2002. Muore Pietro Valpreda, 69 anni, il ballerino anarchico che fu il primo accusato per la strage.
16 ottobre 2003. A Milano comincia il processo presso la Corte d'assise d'appello.
22 gennaio 2004. Al termine della requisitoria, il sostituto procuratore generale Laura Bertolè Viale chiede la conferma della sentenza di primo grado e invita la Corte a trasmettere gli atti alla Procura della Repubblica per accertare eventuali reati di falsa testimonianza in alcune deposizioni di testi a difesa.
12 marzo 2004. La Corte d'assise d'appello di Milano assolve Delfo Zorzi, Carlo Maria Maggi e Giancarlo Rognoni, i tre imputati principali della strage, per non aver commesso il fatto. Riducono invece da tre a un anno di reclusione la pena per Stefano Tringali, accusato di favoreggiamento.
21 aprile 2005. Approda di nuovo in Cassazione la vicenda giudiziaria. La Suprema Corte deve esaminare il ricorso presentato dalla Procura generale milanese contro l'assoluzione disposta dalla Corte d'assise d'appello.
3 maggio 2005. La Cassazione chiude definitivamente la vicenda giudiziaria confermando le assoluzioni di Delfo Zorzi, Carlo Maria Maggi e Giancarlo Rognoni.

LA VERA STORIA DELL’EROE DEI DUE MONDI

Giuseppe Garibaldi è sicuramente il personaggio storico del XIX secolo più popolare. Ma la vera storia dell’Eroe dei Due Mondi, è un po’diversa da quella raccontata dai libri di storia. Ecco qui alcuni stralci di una biografia “senza censure”, dalla quale il giovane Garibaldi esce con le ossa rotte…
Non c’è un solo Comune, in Italia, grande o piccolo che sia, privo di una piazza o di una via dedicata a Giuseppe Garibaldi. È sicuramente il personaggio storico del XIX secolo rimasto più popolare, certamente più degli altri due monumenti del Risorgimento, Cavour e Vittorio Emanuele II. È solo con l’avvento del leghismo che si inizia a rendere Carlo Cattaneo un più degno concorrente dell’Eroe dei Due Mondi.
Ma l’uno è uomo d’azione, l’altro è essenzialmente di scienza e di lettere. L’uno agiva con grande impeto militare ma con scarsissime capacità letterarie (non era Giulio Cesare), l’altro possedeva zero qualità guerresche ma aveva autentiche capacità di progettare il futuro di una nazione. Un vero peccato che fra i due non si sia potuta stabilire un’intesa, nemmeno quando Cattaneo corre a Napoli per seguire la dittatura garibaldina.
Eroe dell’Ottocento borghese, Garibaldi rispecchia l’animo di una borghesia in gran parte ancora pionieristica e avventurosa, romantica al di là del bene e del male. Presto si trasforma in un “mito” per chi sta seduto tutto il giorno dietro una scrivania, non si concede il minimo sgarro alle regole, non rischia nemmeno il proprio pennello da barba e si limita a sognare mondi da conquistare, viaggiando con la fantasia. Garibaldi evoca un Sandokan in carne e ossa, ma non ha la purezza irreale del personaggio creato da Emilio Salgari. Di suo, aggiunge l'essere un autentico tombeur de femmes. Donne ne ha avute così tante nella vita che la sua fama potrebbe stare in piedi solo per il vissuto privato. E forse, anche per questo, è simpatico a Vittorio Emanuele II, che si onora di averlo come amico.
Dalla visione disincantata di Gilberto Oneto, che ha scritto "L’Iperitaliano, Eroe o cialtrone?", l’Eroe dei Due Mondi ne esce mito pompato dalla letteratura giornalistica di ispirazione massonica prima ancora che tornasse in Italia dopo i 12 anni trascorsi in America latina, nessuno dei quali svolgendo un lavoro onesto e normale che sia uno.
Da questa biografia “senza censure”, o non autorizzata, il giovane Garibaldi esce con le ossa rotte: già massone mazziniano poco più che ventenne, per tutta la vita non farà altro che collaborare con i servizi inglesi, protetto ben oltre il limite della decenza, svolgendo di fatto una pesante attività di pirateria al soldo dei potentati locali.
L’INIZIO FRA RAPINE E SACCHEGGI Oneto ricorda che ricorrerà spesso alla rapina, al saccheggio e al pluriomicidio - particolare quest'ultimo che lo vede personalmente coinvolto - mediante bande armate spesso costituite da delinquenti e ladroni, reclutati da oriundi italiani da lui guidati e lasciati liberi di scorrazzare intorno ai grandi fiumi e ai mari che lambiscono i confini dell'Uruguay, dell'Argentina e del Brasile. Perfino le vicende amorose con la moglie Anita hanno un romantico risvolto noir, dal momento che non si è mai compreso come sia morto e dove sia stato seppellito il primo marito della donna, dopo il colpo di fulmine che trafisse la donna e il futuro generale dei Savoia.
Tuttavia, prima del suo ritorno in Italia, Garibaldi non riuscirà ad arricchirsi, anche perché in questa fase della sua vita il denaro non sembra interessarlo molto. Un particolare che alla fine lo salva, facendone una figura più complessa, allontanata dal comune criminale.
I primi veri patrioti al suo comando, eroi pronti a sacrificare la vita per un ideale, li avrà soltanto durante le vicende della repubblica romana, quando, circondato ai vertici da una schiera di incompetenti e presuntuosi proverà a mettere a disposizione la sua indiscussa esperienza con le armi e con le tattiche guerrigliere. Sarà anche la prima volta che si scontrerà drammaticamente con un esercito di valore e ben altrimenti organizzato rispetto a quelli incontrati in America Latina, dove l’essere “eroi” è ordine del giorno.
IL FALLIMENTO DEL GUERRIGLIERO Qui ha a che fare con l’esercito francese, ben organizzato e meglio civilizzato: nulla a che vedere con i comandi militari latinoamericani. L'impatto è durissimo: non solo fallirà l'intento di radicare la latitanza "politica" nelle campagne, ma nella fuga affannosa muore di stenti Anita, molto amata sebbene spessissimo tradita con una intera collezione di donne. Un "Che" Guevara ante litteram non può nascere nello stato pontificio. Anzi, sebbene i sostenitori posteri abbiano messo in campo di tutto per presentarlo alla stregua di un guerrigliero buono, non può nascere in nessuna parte d'Italia, men che meno nel Mezzogiorno, dove nel fenomeno definito come “brigantaggio” c’è una paradossale reazione opposta da parte di contadini. Non c’è tutto questo conclamato entusiasmo per l’unità politica della Penisola, Garibaldi se ne rende ben conto.
Ma se le cose stanno così, come mai riesce la missione dei Mille? Enorme è l’intreccio di corruzione, massoneria, mafia, camorra, fra una rete di complotti interni e internazionali. In questo contesto nascerà l’Italia che ogni cittadino ha imparato a conoscere.
Quando l’Eroe dei Due Mondi sbarcherà a Marsala (le pagine in cui Oneto descrive il viaggio verso la Sicilia sono sicuramente tra le più belle del libro) è già stato ampiamente preceduto dagli emissari di Cavour che non si sono fatti scrupoli nell’investire ingenti somme di denaro per corrompere alti ufficiali dell’esercito napoletano e autorità pubbliche. L’appoggio della massoneria è totale. E tra i primi ad ingrossare le file dei Mille ci sono i picciotti, particolarmente sanguinari, legati alla mafia, già allora ramificata nelle campagne nonostante fosse efficacemente combattuta dalle autorità del Regno delle Due Sicilie, almeno all’interno delle città. Lo stesso succederà con la camorra a Napoli, che si mette al servizio di Garibaldi.
L’INTRECCIO DI MAFIA E COMPLOTTI Con il Regno d’Italia mafia e camorra non conosceranno più limiti alla loro espansione. Naturalmente, l’intera operazione di conquista è seguita dalla flotta inglese, che ha l’ordine di accogliere Garibaldi qualora le cose gli andassero male. Nel “L’Iperitaliano”, Oneto cita con precisione fatti, nomi, circostanze; riscostruite le somme elargite, le promesse di carriera nell’esercito italiano, gli episodi dei numerosi saccheggi ad opera di garibaldini e furbacchioni aggregati all’ultimo momento.
NINO BIXIO CRIMINALE DI GUERRA Per i siciliani non è solo un triste avvio della nuova unità nazionale, un cambio di sovrano, un’annessione senza consenso al Piemonte, ma una nuova sottomissione ben peggiore della precedente. Ai contadini, cui inizialmente era stata promessa la terra, fu tolta ogni speranza: le terre ecclesiastiche requisite e addirittura quelle demaniali concesse solo ai soliti baroni che potevano acquistarle all’asta. In alcuni dei villaggi che osarono ribellarsi - quelli di Bronte, Niscemi e Ragabulto, dove i latifondisti erano inglesi - fu mandato il generale Nino Bixio: un pazzo sfrenato, vero e proprio criminale di guerra che non esitò a far fucilare decine di innocenti. Oggi uno come lui sarebbe sotto processo all’Aja, ma la retorica risorgimentale ha trovato comunque il modo di dedicargli una via in ogni città.
Anche il passaggio sullo Stretto, in Calabria, avviene più o meno con le stesse modalità, con la marina napoletana e gli alti ufficiali dell’esercito misteriosamente sordi e ciechi, tanto da spingere in più occasioni marinai e soldati a rivoltarsi contro la palese (e interessata) viltà dei comandi. In Calabria, circa 1500 garibaldini ebbero ragione di 17 mila soldati napoletani, che o non spararono un colpo, o si arresero in massa o abbandonarono l’uniforme o passarono con Garibaldi.
L’ingresso a Napoli del generale col poncho avviene ancora una volta senza colpo fierire, auspice la potente flotta della marina britannica e la camorra, unica capace di garantire una parvenza di ordine pubblico. Dopo l’unificazione, gli ufficiali passeranno in massa con l’esercito italiano con ampie promozioni, ma pochissimi furono quelli della truppa che seguirono lo stesso esempio. Tra Milano, Alessandria e Bergamo il Regno dei Savoia allestirà veri e propri lager destinati ai meridionali riottosi: 32 mila prigionieri tenuti in condizioni terrificanti, molti dei quali moriranno di stenti.
Il governo di Garibaldi a Napoli resta a tutt’oggi una delle peggiori esperienze cui sia toccato di passare alla città lungo tutta la sua storia. Fu caratterizzato da provvedimenti spesso insensati, come l’abolizione tout court dei dazi, che mandò in rovina l’industria del Sud, o di pura rapina, talvolta vendicativi e crudeli. C’è anche una forte elargizione di denaro pubblico alla camorra affinché provveda alle “esigenze del popolo”; alle mogli, alle sorelle, alle cognate dei più potenti camorristi sono assegnate ricche pensioni. Nel giro di due mesi non c’è più un soldo nelle casse dello Stato napoletano: sparisce l’equivalente di duemila miliardi di euro, gran parte del quale in modo misterioso e ingiustificato. Le prove di ruberie e sprechi, o parte di esse, giacciono a tremila metri in fondo al mare, insieme ai relitti di una nave che doveva essere diretta a Genova ma che è naufragata in circostanze più che sospette.
UN CONFUSO MASSONE DI SINISTRA La storia d’Italia inizia così, nel 1861. Garibaldi guida un’impresa più grande di lui ed è totalmente privo delle qualità di uno statista. Fallisce anche l’ultimo tentativo di fondare uno Stato diverso, come gli suggeriva l’entourage repubblicano e lo stesso Carlo Cattaneo, che insisteva sui principi federalisti.
Dopo l’impresa dei Mille, nonostante l’acquisizione dei massimi gradi della massoneria, che comunque non sarà disposta a seguirlo, Garibaldi assumerà posizioni politiche sempre più sinistrorse, fino a presenziare all’Internazionale socialista con Marx e Bakunin, accentuando un anticlericalismo viscerale, impensabile oggi. Ma quando gli offrono il rischioso comando militare della Comune di Parigi, gentilmente rifiuta.
Per tutta la vita, l’Eroe dei Due Mondi, proprio in virtù delle sue capacità guerrigliere, mai sostenute da una effettiva cultura politica, si è lasciato sempre strumentalizzare da poteri forti e fortissimi, dai quali si dissocia solo a parole, dirigendo la sua azione contro malcapitati comunque destinati a essere fatti a pezzi dalla storia.

IN MEMORIA DEl 20 OTTOBRE 1944. Strage di Gorla, Strage lombarda.

Gorla 20 ottobre 1944: la strage degli innocenti. Abbondanti Ernesta, di anni 7. Alquà Dolores, di anni 9. Andreoni Edvige, di anni 6. Andreoni Franco, di anni 6. Andena Vanda, di anni 7. Andena Giorgio, di anni 9. Angiolini Cesarina, di anni 10. Assandri Marisa, di anni 10. Avanzi Lucia, di anni 8. Baccini Luciana, di anni 10. Bacilieri Giancarlo, di anni 11. Baldo Bruno, di anni 7. Biluci Teresa, di anni 7. Biluci Concetta, di anni 9. Bandiera Valter, di anni 9. Beccari Vilma, di anni 10. Beccari Stefania, di anni 8. Belassi Ambrogio, di anni 8. Benzi Bice, di anni 6. Beretta Giuseppe, di anni 6. Bernaraggi Tullio, di anni 8. Bersanetti Loredana, di anni 6. Bertoleni Vincenzo, di anni 7. Bertolesi Piera, di anni 7. Bertoni Valter, di anni 9. Bianchet Chiara, di anni 10. Biffi Pierluigi, di anni 6. Bolzoni Gianfranca, di anni 6. Bombelli Giuseppe, di anni 9. Bonfiglio Celestina, di anni 8. Boracchi Vilma, di anni 6. Borgatti Elena, di anni 9. Brembati Giovanna Elisabetta, di anni 8. Bremmi Maria, di anni 11. Brioschi Paolo, di anni 9. Brioschi Gianni, di anni 6. Brivio Giovanna, di anni 12. Buratti Rosalba, di anni 7. Cacciatori Ernestina, di anni 6. Calabrese Loredana, di anni 6. Caletti Giancarla, di anni 6. Canda Rosangela, di anni 12. Caranzano Margherita, di anni 7. Carrera Renata Teresa, di anni 9. Carretta Luigi, di anni 8. Carretta Anna, di anni 7. Casati Giuliano, di anni 7. Caslini Adriano, di anni 10. Cassi Giordano, di anni 9. Cassutti Ida Santina, di anni 10. Castelli Lorenzo Omobono, di anni 6. Castellino Claudia, di anni 9. Castoldi Rolando, di anni 7. Cavagnoli Giuliana Maria, di anni 6. Cazzaniga Antonio, di anni 9. Celio Anna, di anni 7. Ceruti Giancarlo, di anni 7. Cinquetti Felice, di anni 10. Colombani Adriano, di anni 9. Colombani Rosanna, di anni 7. Colombo Annamria, di anni 7. Colombo maria, di anni 10. Compati Agostino, di anni 9. Concardi Giancarlo, di anni 7. Consiglio Riccardo, di anni 11. Contato Rosalia, di anni 6. Conti Mirella, di anni 10. Dalla Dea Marina, di anni 9. Dalla Dea Vittore Paolo, di anni 7. Dall'Ora Emilia, di anni 10. Danieli Gianna, di anni 10. De Conca Luisa, di anni 10. Didoni Fausta, di anni 10. Didoni Teresina, di anni 11. Doneda Giulia, di anni 6. Dordoni Giancarla, di anni 11. Falco Franco, di anni 6. Farina Gaetano, di anni 10. Farina mario, di anni 6. Farinella Giovanna, di anni 8. Ferrario Luigi, di anni 6. Ferrè Margherita, di anni 8. Ferri Natalina, di anni 8. Ferroni Pierino, di anni 7. Fontana oscar, di anni 8. Fossati Adele, di anni 6. Franchi Diario, di anni 7. Franzi Angelo, di anni 6. Frezzati Rosalia, di anni 6. Fronti Angelo, di anni 6. Fuzio Ezio, di anni 9. Gallina Clelia, di anni 12. Grulli Giovanni, di anni 9. Guelfi Pasquale, di anni 10. Gilardi Silvana, di anni 6. Giovannini Villiam, di anni 7. Giuliani Aldo, di anni 8. Goi Eleonora, di anni 11. Goretti Edoardo, di anni 6. Grandi Enrico, di anni 7. Lamberti Lamberto, di anni 9. Ladini Peppino, di anni 8. Libanori Giancarlo, di anni 6. Librizzi Maria, di anni 11. Maestroni Giuliano, di anni 6. Maestroni Luigi, di anni 12. Majo Giuliano, di anni 9. Majo Santino, di anni 7. Marosi Ruggero, di anni 8. Marzorati Roberto, di anni 8. Mascheroni Nella, di anni 9. Masiero Gianfranco, di anni 8. Massaro Antonio, di anni 9. Massazza natale, di anni 10. Meregalli Mirella, di anni 6. Meroni Adriano, di anni 9. Migliorini Maria, di anni 9. Minguzzi Graziano, di anni 10. Moccia Carmela, di anni 6. Modesti Giancarlo, di anni 6. Moioli Umberto, di anni 6. Monfrini Bruno, di anni 6. Moretti Licia, di anni 6. Mutti Giuseppina, di anni 10. Nasi Cesarino, di anni 8. Orlandi Graziella Maddalena, di anni 7. Paganini Giorgio, di anni 6. Paglioli Guido, di anni 9. Panizza Armida, di anni 6. Pannaccese Antonio, di anni 8. Pavan Gualtiero, di anni 6. Pavanelli Maria Luisa, di anni 10. Peduzzi Rosa Rachele, di anni 8. Petrozzi Sergio, di anni 7. Piazza mario Adolfo, di anni 6. Pierin Giuseppe, di anni 9. Pioltelli Anna, di anni 6. Pirotta Annunziata Ornella, di anni 6. Pirovano Adele, di anni 6. Ponti Abele, di anni 6. Porro Emilio, di anni 6. Pozzi Elisa, di anni 6. Putelli Anna, di anni 7. Putelli Pierina, di anni 7. Ravanelli Pierluigi, di anni 6. Redaelli franco, di anni 9. Rellandini Franco, di anni 8. Restelli Rosanna, di anni 6. Rho Pierangelo, di anni 6. Rizzoli Geraldo, di anni 6. Romandini maria Gabriella, di anni 6. Rumi Rinaldo, di anni 8. Rumi Gabriella, di anni 6. Ruscelli Marisa, di anni 6. Sala Maria, di anni 7. Saletti Giancarla, di anni 6. Scotti Luigina, di anni 10. Sironi Ambrogio, di anni 7. Sironi Luigi, di anni 7. Soncini Antonietta, di anni 9. Stocchiero Armando, di anni 9. Stocchiero Rinaldo, di anni 6. Stranieri Erminia, di anni 7. Tamiazzo Gianfranco, di anni 6. Tenca teresa, di anni 8. Termine Giannina, di anni 7. Troyer Giuseppe, di anni 12. Valli Antonio, di anni 10. Velati Giuliano, di anni 10. Velati Maria, di anni 7. Vierderio Ennio, di anni 6. Vergani Giovanni, di anni 12. Vicentini Alberto, di anni 10. Villa Lidia, di anni 6. Volpin Mina, di anni 7. Zamboni Andrea Lorenzo, di anni 9. Zanaboni Lidia, di anni 11. Zanellati Rosa Maria, di anni 6. Zeli Italo, di anni 7. Zucchetti Luigi, di anni 8.
Questi 184 bambini furono tutti assassinati dalle bombe anglo-americane, che il 20 ottobre 1944 colpirono la scuola elementare Francesco Crispi nel quartiere di Gorla, a Milano.
In quel giorno morirono, vittime dei bombardamenti degli "Alleati", 641 persone tra cui, oltre ai 184 alunni, 19 maestre della scuola e altri 18 bambini del quartiere.
Loro sono le vere vittime della Guerra di Liberazione.
Fabrizio Dalcerri

CAMERATA DOVE SEI. Questione di giovinezza, giovinezza...

"Le conversioni in senso vantaggioso sono sospettabili, salvo il caso in cui il convertito, riconoscendo di essersi sbagliato una volta e quindi di potere sbagliare anche ora,
si chiudesse per il resto della vita in silenzio.”

Pietro Operti, scrittore antifascista.


Il 24 settembre 1942, il settimanale "Roma Fascista" pubblica un articolo di Eugenio Scalfari: "Gli imperi moderni quali noi li concepiamo - scrive - sono basati sul cardine "razza", escludendo pertanto l'estensione della cittadinanza da parte dello stato nucleo alle altre genti". Il 4 agosto 1942 "La Provincia Granda" pubblica a firma di Giorgio Bocca: "Questo odio degli ebrei contro il fascismo è la causa prima della guerra. attuale. La vittoria degli avversari solo in apparenza infatti, sarebbe una vittoria degli ebrei. A quale ariano, fascista o non fascista, può sorridere l'idea di dovere, in un tempo non lontano, essere lo schiavo degli ebrei?". Erano entrambi giovanissimi, forgiati dalla propaganda del Ventennio, insieme al giovanissimo Giovanni Spadolini, privi della scelta che solo la libertà garantisce. Tuttavia, nessuno di loro fu costretto a scrivere sotto minaccia. La battuta più efficace la fece l'americano Alexander Clark, comandante della V armata Usa in Italia, a cena con lo scrittore Curzio Malaparte, nel 1944 ufficiale di collegamento presso gli alleati. "In Italia", disse, ci sono "40 milioni di fascisti e 40 milioni di antifascisti". Malaparte obiettò che 40 milioni erano gli italiani censiti, l'alto ufficiale spiegò: "Sì, esatto, perché ieri erano tutti fascisti, oggi sono tutti antifascisti". Leo Longanesi, anche lui testimone del grande cambio di casacca, aggiungerà: "Gli italiani sono campioni nel salto sul carro del vincitore". Battute a parte, oggi il tema della presa di distanze tiene ancora banco. Ma è "lungo l'elenco di personalità che, con maggiore o minore entusiasmo, per convinzione o solo per comodità, aderirono al fascismo. molto più di Fini, all'epoca neanche nato ed oggi in procinto di divenire anche lui un antifascista doc. Qualche anno fa, fu il pamphlet "Camerata dove sei?", firmato "anonimo nero", a raccogliere le biografie dei fascisti che si erano dissolti dalla sera al mattino, molti dei quali tornati a far politica nei partiti democratici. Altri casi si aggiungeranno negli anni con le ricerche, alcune davvero imbarazzanti, negli archivi. Nel 1934, Giuseppe Bottai e Alessandro Tavolini, gerarchi col vezzo della cultura promuovono i "Littoriali della Cultura", una sorta di olimpiadi per i giovani più promettenti dei Guf (Gruppi Universitari Fascisti). Ebbene, nell'elenco dei vincitori figurano Pietro Ingrao, Jader Iacobelli, Aldo Moro, Sandro Paternostro, Giaime Pintor, Vasco Pretolini, Luigi Preti, Giuliano Vassalli, Paolo Emilio Taviani, Paolo Sylos Labini, Alfonso Gatto, Mario Ferrari Aggradi, Luigi Firpo, Luigi Gui, Renato Guttuso, Luigi Comencini, Carlo Bo, Walter Binni, Mario Alicata, Michelangelo Antonioni. Molti passeranno all'antifascismo militante, senza scandalo per le parentesi giovanili. Ingrao, il primo presidente della Camera del Pci, compare nell'Antologia di poeti fascisti del 1935, per aver vinto il premio "Poeti del Tempo di Mussolini". Alessandro Natta, successore di Berlinguer a capo di Botteghe Oscure, ha ammesso che quando studiava alla Normale di Pisa era iscritto ai Guf. Come, a Napoli, l'ex presidente della Camera ed ex ministro dell'Interno, europarlamentare ds ed oggi addirittura Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano.
Il caso di Giame Pintor, il raffinato intellettuale fratello del fondatore del Manifesto Luigi, è stato portato alla ribalta recentemente da un documentatissimo libro di Mirella Serri che ne ha ricostruito la partecipazione a un congresso giovanile nella Germania nazista. Nel 1940 Alessandro Galante Garrone, giovane giudice del Tribunale di Torino, elaborava un commento a una sentenza nella quale indicava i requisiti per essere ascritto alla razza ebraica. Sarà poi partigiano. Alberto Moravia nel 1941 scriveva al Duce, cui Norberto Bobbio - come rilevato da Pietrangelo Buttafuoco - chiese aiuto per una cattedra universitaria.
Folto anche il capitolo delle adesioni alla Repubblica di Salò, scelta non obbligata data l'alternativa della Resistenza. Lo storica Raberto Vivarelli ha ammesso in un'intervista l'adesione alla X Mas di ]unio Valerio Barghese, rivelando anche che "Giorgio Bocca scriveva sul giornale della federaziane fascista di Cuneo" e che Dario Fo è stata saloino. Del resto, con onestà, il 22 marzo 1978 il Nobel dichiarò a "La Repubblica": "Io repubblichino? Non l'ho mai negato. Sono nato nel '26. Nel '43 avevo 17 anni. Finché ho potuto ho fatto il renitente. Poi è arrivato il bando di morte. O mi presentavo o fuggivo in Svizzera". Un'alternativa, ammette, c'era. Sotto le bandiere di Salò c'erano ancora Marcello Mastroianni, Giorgio Albertazzi, Marco Ferreri, Walter Chiari, Ugo Tognazzi (Brigata Nera di Mantova), Ugo Pratt, Giovanni Comisso, Dino Buzzati, Mario Sironi, Alberto Burri, Ernesto Calindri, Carlo D'Apporto, Enrico Maria Salerno. Molti, non l'hanno negato, alcuni anzi l 'hanno rivendicato.

I DESAPARECIDOS ARGENTINI ed i mondiali di calcio del 1978

La tragedia dei desaparecidos inizia dalla funesta data del 1 luglio 1974 giorno della morte di Juan Domingo Peron, leader incontrastato della scena politica argentina fin dagli anni 40. Peron venne eletto presidente per la prima volta nel 1946, ed emblematica è la sua rielezione nel 1973 sull'onda di oceaniche manifestazioni popolari, alla veneranda età di 78 anni. Dopo la sua morte diventa presidente dell'Argentina la sua terza moglie Isabel Perón ma nello sgomento generale e in un clima di smobilitazione prende sempre più piede la figura di López Rega, che crea uno stato di polizia, inaugurando la fase del terrorismo con la formazione dell'Alleanza Anticomunista Argentina (detta Triple A). Nascono bande e organizzazioni paramilitari al servizio del potere politico con il fine di eseguire omicidi e sequestri degli oppositori al regime. In un clima di sempre maggiore incertezza economica e politica i militari decidono di assumere direttamente il potere rovesciando il governo di Isabelita Perón. E' il 24 marzo del 1976 e ha inizio in Argentina la dittatura militare con il terribile triumvirato Massera (comandante della Marina), Agosti (comandante dell'Aeronautica) e Videla (comandante dell'esercito e presidente di fatto). Con il pretesto di effettuare un processo di riorganizzazione nazionale instaurano il terrorismo di Stato su grande scala. Dichiarano lo stato di assedio abrogando i diritti costituzionali, sospendono le attività politiche e di associazione e chiudono e sequestrano sindacati e giornali. Per ottenere qualsiasi tipo di informazioni su veri o presunti nemici del regime viene istituzionalizzata la pratica della tortura, praticata in clandestini centri di detenzione nei quali vengono incarcerati i detenuti illegali. Il clima di terrore e paura tra la popolazione viene così accentuato dalle prime sparizioni di persone: è l'inizio del dramma dei desaparecidos. I militari rimangono al potere fino al 1983 e il motivo della loro caduta va ricercato principalmente nell'insensata azione di guerra promossa nel 1982 dall'allora presidente Galtieri. Questi facendosi paladino della realizzazione delle tematiche nazionaliste tanto care ai militari decide di occupare le isole "Malvinas" (Falkland), da 150 anni nelle mani degli Inglesi. Il risultato dell'operazione bellica è disastroso; le truppe argentine sono inesperte, mal equipaggiate e mal alimentate, nascoste in trincee sotto il bombardamento delle superiori forze britanniche subiscono numerosissime perdite umane. Ed è proprio sull'onda di questo altissimo prezzo pagato che l'Argentina inizia il processo di transizione alla democrazia con la destituzione di Galtieri e la salita al potere di Bignone. In questa ultima fase la dittatura getta le basi per il suo epilogo: i militari particolarmente preoccupati per le possibili conseguenze dei loro atti eliminano gli archivi della repressione clandestina e decretano un autoindulto che li esonera dalla responsabilità per gli atti compiuti durante la dittatura. Nel 1983 i radicali portano alla presidenza Raúl Alfonsín. Il nuovo governo ristabilisce pienamente le libertà democratiche e le garanzie costituzionali tentando, ma riuscendovi solo in parte, di giudicare e condannare i colpevoli dei massacri e delle torture.
I mondiali del disonore. Nel 1978 fu disputata in Argentina l'edizione più drammatica e infame dei campionati mondiali di calcio. Nonostante i governi di mezzo mondo e le autorità del calcio fossero al corrente dei crimini tremendi che venivano commessi nell'Argentina sotto la dittatura militare, venne fatta la scelta vile di recarsi ugualmente a disputare quella che doveva essere una grande festa sportiva per il mondo intero. Disputare ugualmente quel torneo fu una grande occasione persa per emarginare un regime criminale e denunciare fatti di infinita gravità e si trasformò al contrario in un autentico regalo alla dittatura (e ai suoi protettori e padrini internazionali) che ebbero dal resto del mondo una sorta di riconoscimento formale del regime. Anche grazie alla vittoria annunciata della squadra argentina strafavorita da arbitraggi e inganni, i campionati del mondo vennero usati da Videla e Massera per distogliere l'attenzione di un popolo terrorizzato dalla tragica realtà e per cercare di dare al mondo intero una immagine di normalità. Ingenti furono i costi della manifestazione, il tutto "perché si diffondesse ai quattro venti il sorriso di un paese felice sotto la tutela dei militari" come riporta Eduardo Galeano. Ma contemporaneamente allo svolgersi del Mondiale continuavano i piani di sterminio delle alte cariche tanto che, proprio nel periodo della manifestazione calcistica, in Argentina la repressione toccò il suo culmine e con essa il numero dei rapimenti e degli assassinii. In pratica i boati del tifo argentino ai goal di Mario Kempes nascondevano il rumore degli aerei della morte che sorvolavano gli stadi trasportando i desaparecidos pronti per essere gettati ancora vivi in mare Ma le autorità non si curavano di questo e numerose furono le esternazioni di ringraziamento al regime militare. Il presidente della FIFA Havelange parlando davanti alle telecamere delle televisioni osservava: "Finalmente il mondo può vedere l'immagine vera dell'Argentina". Henry Kissinger, ospite d'onore della manifestazione, dichiarava: "Questo paese ha un grande futuro, a tutti i livelli". L'unico gesto dignitoso lo compirono i giocatori olandesi sconfitti in finale dai padroni di casa: al momento di ricevere il trofeo si rifiutarono di salutare i capi della dittatura.
(Nella foto: Hebe de Bonafini, Presidente delle Madres dePlaza de Mayo)

I bombardamenti aerei su Milano durante la II guerra mondiale

Pochi mesi dopo lo scoppio della guerra, e prima ancora che l'Italia decidesse di prendere le armi al fianco dell'alleato tedesco, la nostra penisola fu oggetto di numerose missioni aeree di ricognizione da parte delle forze inglesi, che intendevano monitorare il più esattamente possibile il territorio di quello che, secondo il loro oculato punto di vista, sarebbe stato un futuro nemico.Nel giugno del 1940, ad un mese dalla dichiarazione di guerra italiana, iniziarono i primi bombardamenti aerei su Torino, senza tuttavia grandi ripercussioni, sia a causa dell'ancora poco organizzato Bomber Command inglese, sia per l'esiguo numero di aeroplani utilizzati nelle missioni. Ciononostante, la popolazione delle grandi città comprese tristemente quale destino si prospettava innanzi. Parte I: Lo scenario
Obiettivo Milano

Nel 1940 Milano era ritenuta dagli Inglesi un importante obiettivo militare, essendo la più sviluppata città industriale d'Italia e una delle più rilevanti a livello europeo, situata all'interno del triangolo industriale, con Torino e Genova.
Il servizio di informazioni industriali inglese, prima ancora dell'inizio dl conflitto, si era procurato notizie dettagliate e mappe di tutte le principali realtà produttive di Milano e provincia, tra le quali spiccavano la Alfa Romeo, la Edoardo Bianchi, le Officine Galileo, la Magneti Marelli, le officine Borletti, la Tecnomasio Italiana Brown Boveri, la Pirelli, la Isotta Fraschini, la Breda, la Caproni, l'Ansaldo e, ma non ultima, la Falk acciaierie.
La città era ritenuta inoltre uno dei principali snodi ferroviari del Paese, caratterizzata da 21 linee ferroviarie, da una delle stazioni più grandi d'Europa e da importantissimi scali merci, tra i quali Lambrate e Farini, snodi vitali per le suddette industrie.
I rapporti stilati a conflitto già iniziato indicavano in un milione e centomila gli abitanti della città, che gli stessi studi descrivevano divisa a cerchi concentrici, il più interno dei quali (centro storico, all'interno della cerchia dei navigli) risultava essere anche il più vulnerabile in caso di intenso attacco aereo, sia perché maggiormente abitato, sia per la vicinanza tra loro delle costruzioni, con strade prevalentemente strette. Si prevedeva così, in caso di bombardamento anche mediante spezzoni incendiari, un facile propagarsi del fuoco, pur dovendosi sottolineare che gli stessi rapporti spionistici si rammaricavano per il materiale impiegato per la costruzione degli edifici, e cioè quasi esclusivamente mattoni e cemento, causa questa di maggiore difficoltà nel propagarsi degli incendi, i quali invece avevano dato grandi risultati nelle città tedesche, ove abbondava l'impiego di materiali lignei.
Alla luce di tutto ciò, il bombardamento sistematico fu in un primo momento (fino a tutto il 1943) rivolto a colpire la città "civile", mirando su case e popolazione, affinchè questa terrorizzata spingesse sul Governo a chiedere un armistizio; in un secondo tempo (dal 1944) si accanì su fabbriche e produzione bellica, asservita alle esigenze tedesche.
Le difese della città
La difesa dagli attacchi dal cielo fu inizialmente affidata alla quinta legione ("La Viscontea") della Milizia Di.ca.t. (Difesa contraerea territoriale), che poteva vantare, tra ufficiali, sottufficiali e militi, quasi 9.000 uomini, dislocati sia in città sia sul resto del territorio milanese, posizionati in zone strategiche e pronti in ogni momento a mitragliare gli apparecchi nemici. Anche alcune fabbriche di grosse dimensioni erano dotate di proprie batterie antiaeree, collocate di norma sui tetti dei capannoni.
Dopo l'ottobre 1942 affluirono in Italia alcuni reparti della Flakartillerie tedesca, dipendenti dalla Luftwaffe, per dar man forte alla Dicat, la cui abilità nel difendere i cieli si era rivelata assai scarsa, tanto da non essere quasi temuta dai bombardieri.
Le batterie tedesche vennero sistemate nei pressi di quelle italiane, al fine di sfruttarne i già stabiliti collegamenti per le comunicazioni. Dopo l'armistizio, scioltasi la Dicat, la difesa dei cieli spettò esclusivamente alla Flak tedesca, che perciò venne potenziata sfruttando il personale italiano della Repubblica Sociali Italiana. Oltre alla difesa organizzata da terra, erano sempre pronti a staccarsi in volo i caccia della Regia Aeronautica, di stanza negli aeroporti di Venegono e Lonate Pozzolo (apparecchi Macchi C 202 e Fiat CR 42, più qualche Messerschmitt Bf 109 della Luftwaffe).
L'ultimo gradino della difesa era affidato agli uomini della UNPA (unione nazionale protezione antiaerea), e ai Capifabbricato, uno per ogni palazzo, questi ultimi col compito di garantire l'efficienza degli eventuali rifugi antiaerei, delle uscite di sicurezza e degli idranti, nonché di controllare che il caseggiato fosse adeguatamente oscurato, che cioè tutte le finestre degli appartamenti fossero mascherate con carta azzurra, prima vera difesa passiva contro le incursioni notturne (anche i fari di tram, autobus, auto e biciclette avevano solo una piccola fessura per la proiezione della luce, e i parafanghi dipinti di bianco).
La popolazione veniva avvisata del pericolo incombente da un primo piccolo allarme aereo (sirena), che, almeno quando ancora la difesa contraerea e gli avvistamenti erano in grado di svolgere il loro compito, era data con trenta minuti di anticipo sull'attacco. Poi seguiva una seconda sirena, di grande allarme, che precedeva di pochi minuti i primi sganci di bombe.
I cittadini avevano dunque (almeno in teoria) il tempo di raggiungere le cantine rifugio (per i palazzi predisposti o comunque attrezzati al caso) o i rifugi collettivi più vicini. I portinai degli stabili avevano inoltre il compito, durante gli attacchi, di spalancare i portoni, per permettere ai passati sorpresi dall'incursione di ripararsi dentro gli androni.
I bombardieri
Per poter comprendere appieno la potenza distruttiva di un bombardamento aereo alleato, è opportuno dedicare poche ma significative righe agli apparecchi utilizzati per le incursioni:
- nel 1940, il Bomber Command inglese si avvalse di bimotori Armstrong Witworth Whitley, aerei il cui carico di bombe dovette essere ridimensionato a causa del lungo viaggio che dovevano compiere (Inghilterra-Milano e ritorno), quindi non più di 2.000 chili;
- dall'autunno 1942 fino all'estate del 1943, il Bomber Command utilizzò invece i gioielli di famiglia, i quadrimotori Stirling (capaci di trasportare ciascuno ben 6.000 Kg di bombe), Halifax (5.800 Kg), e Lancaster (6.500 Kg). Venne impiegato anche il bimotore Wellington, il De Havilland Mosquito (bimotore per ricognizioni, dal quale venivano sistematicamente scattate le fotografie dei dopo-bombardamenti) e il famoso Spitfire, caccia per ricognizione e mitragliamenti al suolo;
- dal 1943, gli attacchi vennero affidati alla MAAF (Mediterranean allied air force) e alla USAAF, utilizzando quadrimotori Boeing B 17 Flying Fortress (le fortezze volanti) e B 24 Liberator, dotati di carichi distruttivi inferiori a quelli inglesi. Tali aerei decollavano dalla Puglia e dalla Campania, ormai liberate dal giogo nazi-fascista;
- nell'ultimo periodo di guerra, volarono su Milano anche altri aerei statunitensi, tra i quali il Republic P 47 Thunderbolt, dagli Italiani ribattezzato Pippo, tragicamente famoso per incursioni solitarie sia notturne che diurne per mitragliamento di strade e ferrovie.
Per quanto riguarda le bombe aviotrasportate, gli Inglesi utilizzarono bombe incendiarie di piccole dimensioni e classiche bombe da 250, 500, 1000 e 2000 chilogrammi. Raramente anche bombe da 6000 chili.
Gli aerei statunitensi erano equipaggiati con bombe da 250 e 500 chili, ad alto esplosivo e dirompenti.
Modalità degli attacchi
Gli attacchi su Milano (come del resto su altre città) furono inizialmente solo notturni: gli aerei inglesi decollavano da basi posizionate nel sud dell'Inghilterra verso l'ora di cena, attraversavano nella serata i cieli della Francia, occupata dall'esercito di Hitler, varcavano le Alpi e a mezzanotte piombavano sulla città, dove restavano per circa un'ora, per poi far ritorno alle loro basi.
Svolgendosi al buio, e non potendosi sempre contare su cieli tersi e lune piene, l'incursione era preceduta dal passaggio di aerei detti "pathfinder", cioè dei segnastrada, che lanciavano dei luminosissimi bengala onde mostrare ai bombardieri la rotta e gli obiettivi.
Dopo il 1943, gli aerei dell'USAAF attaccavano invece di giorno, a tutte le ore, con maggiori rischi di essere abbattuti ma con più probabilità di centrare i bersagli prestabiliti. Di solito decollavano al mattino dalla Puglia, sorvolavano l'Adriatico, e dalla Romagna viravano puntando su Milano. Al ritorno, questi aerei avevano la possibilità, ormai liberatisi del peso enorme delle bombe, di cacciare liberamente con le mitragliatrici, su tutto ciò che ritenevano utile colpire (treni in corsa, corriere, colonne militari in spostamento).
Parte II: Cronologia dei bombardamenti
Anno 1940
Notte tra il 15 e il 16 giugno
Milano subì il primo attacco aereo dopo soli cinque giorni dall'entrata in guerra dell'Italia.. L'allarme antiaereo fu dato alla 1.48. Vennero colpiti diversi edifici, e si contarono un morto e alcuni feriti.
Notte tra il 16 e il 17 giugno
Alle 22.30 suonò l'allarme in seguito all'avvistamento di 8 aerei che sorvolavano i cieli di Milano. Secondo allarme alle 0.23 per altri bombardieri in avvicinamento da sud, poi ancora un allarme quindici minuti dopo, per aerei che sganciavano bengala in zona attigua alla Caproni, che poi fu effettivamente colpita da circa 25 bombe. Alla 1.00, segnalati aerei da nord diretti a sud, alle 2.00 sgancio di bombe sulla Milano-Laghi. Ultimo allarme alle 5.04, e alle 6.22 definitivo cessato allarme. Danni non rilevanti.
Notte tra il 13 e il 14 agosto
Dopo quasi due mesi di tranquillità, alla 0.55 allarme per aerei provenienti da Como, Varese e Domodossola. Vennero sganciate bombe e volantini di propaganda. Si contarono 15 morti e 44 feriti, dovuti ad attacchi concentrati nelle vie Sarpi, Settala, Moscova, e viale Padova. Altri danni a Greco e in via Messina. La Dicat sparò numerosissimi colpi, senza tuttavia poter colpire apparecchi inglesi.
Notte tra il 15 e il 16 agosto
Allarme alle 0.40, ma a causa del fuoco contraereo della Dicat, gli aerei inglesi si liberarono del loro carico di bombe su Merate e Mariano Comense. Un velivolo Wellington fu abbattuto, provocando la morte di uno dei cinque piloti.
Notte tra il 18 e il 19 agosto
Allarme alle 0.40, furono sganciate 14 bombe (colpiti stabilimenti Innocenti a Lambrate, Caproni e aeroporto Forlanini-idroscalo).
Notte tra 24 e 25 agosto
Allarme alle 0.49, ma sgancio di bengala.
Notte tra il 26 e il 27 agosto
Allarme tra la 1.00 e le 3.00. Nessuna bomba sganciate, due aerei inglesi abbattuti (uno nell'Appennino ligure, uno presso Arese).
Notte tra il 18 e il 19 dicembre
Il Bomber Command si rifece vivo dopo più di tre mesi di silenzio. L'allarme durò dalle 2 alle 4.30: distrutta una cascina ad Assago e colpita la via Col di Lana a Milano (otto morti, 16 feriti).
Anno 1942
Se il 1941 era trascorso senza nessuna missione del Bomber Command, che aveva preferito concentrare le proprie forze in altri scenari di guerra, il 1942 (che sembrava un'annata tranquilla) mostrò la preparazione e la determinazione inglesi nel mese di ottobre.
Tardo pomeriggio del 24 ottobre
La cittadinanza fu colta di sorpresa quando il suono delle sirene si sovrappose al rumore del traffico alle ore 17.57: innanzitutto perché da più di un anno gli aerei avevano disertato i cieli milanesi, inoltre perché fino ad allora gli attacchi erano stati sempre effettuati durante la notte. Ma quello che più sorprese, fu il fatto che le prime bombe cominciarono a cadere appena tre minuti dopo l'allarme, che evidentemente era stato dato con colpevole ritardo. Circa 73 aerei Lancaster si riversano ad ondate sulla città, in un orario di affollamento e movimento intenso. La Dicat intervenne già spiazzata, cercando di rimediare a tutta una serie di errori difensivi (che infatti le vennero rimproverati nei giorni successivi, anche sulla stampa). Le bombe sganciate furono di tutte le dimensioni, tra le quali ben 12 da 2000 chili, più di 2.000 bombe incendiarie di grosso calibro e più di 28.000 di piccolo calibro.La seconda fase dell'attacco fu disturbata dal fumo degli incendi subito divampati, che saliva a cinquecento metri di quota schermando il cielo. Si levarono in volo, per intercettare i bombardieri, cinque aerei dell'Aeronautica, senza successi importanti. Un Lancaster si schiantò al suolo dalle parti di Segrate, abbattimento forse attribuibile alla contraerea installata presso la Caproni. Al termine del raid, i morti risultarono 135, i feriti 331, alcuni dei quali non sopravvissero. Vaste zone della città risultarono danneggiate o devastate. Secondo il rapporto della prefettura, subirono gravi danneggiamenti gli stabili in via Pantano, via Velasca e corso Roma (ora porta romana) ai civici 7,9 e 10; due stabilimenti in zona Ticinese e la via S. Cristoforo; piazza Tricolore, viale Montenero (civici dal 72 al 76 e 73), via Archimede, via Melloni, il Macello e il mercato ortofrutticolo (scalo Vittoria), via Messina, Lomazzo, Sarpi, Aleardi, corso Buenos Aires (civici 33 e 58), piazza Bacone, via Oxilia (civici dal 23 al 29 e 26), via Sauli (dal 18 al 28).Il carcere di San Vittore fu danneggiato, e a causa dell'abbattimento di un muro perimetrale e del parapiglia seguitone, un centinaio di detenuti si diede alla fuga. Il disastro obbligò il Comune a predisporre scuole ed edifici pubblici per accogliere i senzatetto, mentre la cittadinanza si lamentò dell'insufficienza dei rifugi pubblici, dimostratisi in numero inferiore rispetto alle concrete esigenze di riparo durante gli attacchi.
Notte tra il 24 e il 25 ottobre
Gli incendi causati dall'incursione pomeridiana ancora divampavano, quando alle 22.44 piombarono su Milano altri bombardieri inglesi. Tuttavia l'attacco risultò notevolmente inferiore a quello diurno appena effettuato, a causa dei pochi aerei che effettivamente riuscirono a raggiungere la città, avendo lo stormo subito lungo il tragitto numerose perdite (causa temporale e contraerea svizzera). Molte bombe si dispersero così sul territorio circostante Milano, alcune finirono addirittura sulla certosa di Pavia e a Vigevano.Per migliaia di milanesi iniziò lo sfollamento: tutte le sere dei giorni feriali grandi masse si accalcavano su corriere e treni (ma c'è chi doveva arrangiarsi con biciclette) per passare la notte, dopo un giorno di duro lavoro, in zone limitrofe ritenute non soggette a bombardamenti notturni, trovando casa presso locali messi a disposizione da contadini.Alla fine del 1942 cominciarono ad essere ridotti i trasporti pubblici cittadini, soprattutto per mancanza di pezzi di ricambio. Molte linee vennero soppresse, e le corse iniziarono ad avere frequenza ridotta.
Anno 1943
Dall'inizio dell'anno la Dicat, dopo avere dato prova di scarsissima preparazione ed efficacia, era stata affiancata dalla Flak tedesca. Il Bomber Command era intanto stato potenziato e perfezionato, ed aveva iniziato la distruzione sistematica delle città tedesche.A Milano, intanto, la razione di pane giornaliera scese a 150 grammi, i buoni del tesoro persero valore e tra la popolazione prese piede il baratto, unico sistema per procurarsi di che vivere.
Notte tra il 14 e il 15 febbraio
Il preallarme suonò alle 21.30, e dopo mezz'ora, alle 22.06, il grande allarme. Circa 138 Lancaster iniziarono a sganciare le bombe alle 22.34. La rotta era stata tracciata da numerosi pathfinder dal Lago Maggiore in poi. Un solo aereo fu colpito dalla contraerea, e si schiantò in fondo a via Boffalora, alla Barona. Un membro dell'equipaggio non fu più trovato, ed uno dei motori venne dissotterrato nel 1990, durante i lavori per la costruzione del capolinea Famagosta della metropolitana due. Durante l'attacco vennero sganciate 110 tonnellate di bombe esplosive e 166 tonnellate di ordigni incendiari.La ricognizione inglese per la valutazione dei danni inflitti fu effettuata quattro giorni dopo da un aereo De Havilland Mosquito. Secondo il rapporto e interpretando le foto scattate dall'alto, risultarono danneggiate l'Alfa Romeo, la Caproni, la Isotta Fraschini, la Centeneri e Zinelli e la manifattura tabacchi. Danni poi allo scalo Farini, a porta Genova, al deposito tranviario di via Messina e a quello degli autobus di corso Sempione. Inoltre, 35 aree civili danneggiate in corso Roma, presso il Duomo, all'Arena, in via Mario Pagano, piazzale Loreto, alla stazione centrale nei pressi della università Cattolica.Secondo i rilievi italiani dei giorni seguenti, danneggiati risultarono numerosi cinema, la centrale del latte, diverse centrali Stipel, più 203 case distrutte e 220 gravemente danneggiate, 376 con danni importanti, e più di 3000 quelle con danni lievi. Gravi danni subì il Corriere della Sera in via Solferino.Per quanto riguarda il patrimonio culturale ed artistico, danneggiate risultarono le chiese di: S.Maria del Carmine, S.Lorenzo, S.Giorgio al palazzo. Inoltre il palazzo Reale, la Pinacoteca Ambrosiana, la Permanente, la Galleria d'arte moderna, il Conservatorio.Per domare gli incendi dovettero intervenire anche i vigile del fuoco di Bologna, oltre a quelli di tutte le province vicine. Alle otto del mattino seguente riprese la circolazione dei tram e dei treni alla Stazione centrale.
Il conteggio dei morti si attestò su 133, con 442 feriti. I senza tetto risultarono 7.950, ma pochi giorni dopo quelli regolarmente registrati presso gli uffici comunali furono 10.000. La città subì un ulteriore svuotamento da parte della popolazione, sia perché rimasta senza una casa, sia per timore di ulteriori attacchi. Le scuole furono chiuse a tempo indeterminato, sia per il pericolo di bombardamenti, sia per mancanza di combustibile.
Notte tra il 7 e l'8 agosto
Il 25 luglio Mussolini era stato arrestato dopo la storica seduta del Gran Consiglio del fascismo, e tradotto sul Gran Sasso. Per accelerare la resa dell'Italia, venne allora programmato un ciclo di bombardamenti ferocissimi su Milano, che, secondo le intenzioni, dovevano distruggere la città entro un mese.Il primo di tali attacchi iniziò con l'allarme delle 0.52 dell'8 agosto, quando aerei nemici erano stati segnalati in passaggio sulla frontiera svizzera. Le bombe iniziarono a cadere alla 1.10. I Lancaster della RAF sganciano soprattutto bombe incendiarie: presto enormi cerchi di fuoco si propagarono a Porta Venezia, porta Garibaldi, in corso Sempione, Magenta e Ticinese. Il teatro Filodrammatici andò distrutto, così come gran parte del Corriere della Sera. Risultò inservibile l'ospedale Fatebenefratelli. Pesanti danni anche al museo di Storia naturale, al Castello, alla Villa Reale, al palazzo Sormani. In totale, si ebbero 600 edifici distrutti, sotto le cui macerie persero la vita 161 persone, più 281 feriti.La contraerea riuscì a colpire due Lancaster (che precipitarono uno in via Gustavo Modena, l'altro, a pezzi, cadde sulla via Compagnoni e dintorni). L'oscuramento della città fu imposto dalle 21.30 alle 5.30. I mezzi ATM riuscirono a riprendere servizio solo in periferia, dato che la maggior parte delle vie più centrali risultava impraticabile al passaggio veicolare, ostruita da macerie e costellata di voragini..
Notte tra il 12 e il 13 agosto
Per questa missione il Bomber Command inglese mobilitò tutti gli apparecchi disponibili, e su Milano furono inviati addirittura 504 aerei: 321 Lancaster e 183 Halifax. Lo scopo di tale spiegamento di forze era quello di creare sulla città il cosiddetto vortice di fuoco (dai comandi inglesi tanto teorizzato quanto realizzato sulle città tedesche), per annientarla totalmente. Per questo, tra le 2.000 tonnellate di bombe trasportate quella notte, vi erano 380.000 spezzoni incendiari.L'allarme fu dato alle 0.35, con cielo senza nubi. Neppure dieci minuti dopo iniziò lo sgancio delle bombe e degli spezzoni incendiari, il tutto per circa un'ora. La contraerea nulla poté fare. Il centro cittadino fu la zona più colpita, senza risparmiare però il quartiere Ticinese, Garibaldi, Sempione. Gli incendi divamparono ovunque, con effetti distruttivi su palazzo Marino, la Questura, il Commissariato Duomo, il Castello, la chiesa di San Fedele, Santa Maria delle Grazie (ma non il Cenacolo "ingessato" nei sacchi di sabbia); il Duomo riportò gravi danni, così come la Galleria (volta distrutta e facciata delle costruzioni "raschiate").La potenza delle fiamme era alimentata dal vento che si era alzato a causa dell'incendio stesso, che attirava aria dalle campagne per autoalimentarsi (è l'effetto, enormemente ingrandito, che si verifica quando si apre lo sportello di una stufa: le fiamme subito riprendono vigore perché attirano nuovo ossigeno dall'esterno). La scena all'alba dovette apparire apocalittica: quasi metà città era in preda alle fiamme e l'aria totalmente irrespirabile, interi quartieri erano pericolanti. Furono comunque ripristinate alcune linee automobilistiche per favorire lo sfollamento degli ultimi cittadini rimasti, all'incirca 250.000 persone.
Notte tra il 14 e il 15 agosto
Questa volta 140 Lancaster scesero su Milano alle 0.32. In un'ora, sganciarono facilmente le loro bombe, guidati dagli incendi del precedente attacco che ancora ardevano non domanti. Furono nuovamente centrati il Castello, il Palazzo Reale, il teatro dal Verme e il teatro Verdi. Numerose industrie colpite pesantemente. I pochi cittadino presenti diedero soccorso ai vigili del fuoco e agli uomini UMPA per fermare la furia devastatrice delle fiamme, ma l'imprese fu rallentata dalla mancanza d'acqua, causata dalla distruzione delle tubature dell'acquedotto.
Notte tra il 15 e il 16 agosto
Il terzo attacco del ciclo programmato fece suonare l'allarme alle 0.31. Non tutti i 199 Lancaster decollati dall'Inghilterra questa volta raggiunsero Milano, in una notte per loro poco fortunata. Maggior sfortuna toccò comunque alla città: interi quartieri vennero bombardati. Segnaliamo solo: Archivio di Stato (enormi perdite cartacee), il Duomo, la Scala, che ebbe il tetto sfondato (e che sarà ricoperto con tettoie provvisorie fino all'inizio del lavori di restauro), la Rinascente (totalmente distrutta, poi demolita perché non recuperabile).I quotidiani uscirono la sera seguente, in edizioni limitate, anche a causa della mancanza di carta per le rotative. La città era in preda agli incendi e coperta di macerie, e il Bomber Command decise di fermarsi, seppur insoddisfatto. Infatti la distruzione totale della città apparve impresa impossibile, per due ragioni.Innanzitutto i materiali di costruzione degli edifici (pochissimo legno), e l'inversione termica che tanto afose rende le giornate di agosto: il caldo estremo anche notturno e l'umidità a livelli prossimi al 90% impedivano all'aria di circolare, ragione per la quale le fiamme non riuscivano mai a propagarsi con la facilità che si verificava sulle città tedesche. Inoltre, l'armistizio era ormai vicino: inutile insistere.
Le terribili incursioni del mese di agosto avevano colpito il 50% degli stabili, di cui il 15% gravemente danneggiato. I senza tetto furono almeno 250.000, e 300.000 gli sfollati. Per rimuovere le macerie si reclutarono con difficoltà 5.000 operai, oltre a 1.700 militari. La maggior parte degli sgomberi e delle messe in sicurezza fu affidata alla manovalanza ormai esperta della ditta Romanoni (che dall'inizio del conflitto aveva vinto l'appalto per tali incombenze).Il servizio di trasporto pubblico fu quello che ne uscì più disastrato (acqua, luce e gas erano infatti ripresi entro le 48 ore). I tram e le filovie erano totalmente distrutti, così come le rimesse, devastate dagli incendi. Dalle vetture meno danneggiato si recuperano i pezzi per rendere efficienti pochi tram, in una sorta di cannibalismo meccanico. Inoltre, con la rete di alimentazione aerea danneggiata (i palazzi crollando avevano travolto in centinaia di punti i fili della corrente) anche i tram rimessi in servizio ebbero problemi di circolazione. Inizialmente vennero dunque impiegate le piccole locomotive a vapore dei gamba de legn (che vennero così tolte dai servizi extraurbani), le quali, con i rimorchi di fortuna, poterono garantire almeno qualche linea, soprattutto per collegare le stazioni ferroviarie.
Pietoso fu lo spettacolo dei monumenti milanesi: tra tutti, la mattinata del 16 agosto venne dedicata ad un sopralluogo della Scala, come detto centrata in pieno da una bomba di grosse dimensioni. I palchi apparvero gravemente danneggiati, solo il palcoscenico, ristrutturato notevolmente negli anni trenta, si era salvato grazie al sipario metallico che aveva impedito al fuoco di propagarsi. Per evitare che la pioggia e il gelo dell'inverno distruggessero del tutto quanto scampato, nel mese di settembre venne studiata e messa in opera una copertura provvisoria anulare, per proteggere i palchi e i fregi decorativi. La tettoia venne realizzata con materiale di fortuna, prevalentemente legno e cartone catramato. Solo a conflitto terminato sarebbe stato possibile portare a termine il restauro e il ripristino del teatro.
Santa Maria delle Grazie, eccettuato il Cenacolo, ne uscì parzialmente mutilata. La cupola bramantesca risultò alquanto danneggiata, così come il chiostro e la fontana centrale, colpita in pieno da una bomba. Anche il chiostro piccolo venne colpito, ma l'incendio propagatosi era stato coraggiosamente spento dall'opera degli stessi frati.
Infine, l'Ospedale Maggiore, la storica Ca Granda, fu centrata da sei o sette bombe di grosso calibro. Andò distrutto il cortile centrale, che perse i portici. Furono colpiti anche i chiostri laterali. Dovranno passare decenni prima di poter vedere restaurato l'antico complesso ospedaliero.
L'otto settembre regalò all'Italia l'armistizio; il 24 novembre Mussolini diede vita la Repubblica Sociale italiana.
Con il sopraggiungere dell'inverno si dovettero abbattere centinaia di alberi (tra quelli sopravvissuti agli incendi) per alimentare le stufe domestiche.
Anno 1944
Dopo l'armistizio, mentre gli angloamericani risalivano lentamente dal sud Italia ormai liberato, Milano passò sotto il controllo dei Tedeschi, coadiuvati da squadre autonome di fascisti, quali la "Ettore Muti".
Notte tra il 28 e il 29 marzo
Partiti dalla Puglia, 78 Wellington arrivarono su Milano alle 22.40. L'attaccò si concentrò sullo scalo di Lambrate. L'allarme era suonato tardi, dieci minuti prima del lancio dei bengala su Rogoredo e Affori, tant'è che la contraerea, anche se allertata, non colpì aerei nemici. I danni al sistema ferroviario furono ingenti: circa 300 vagoni distrutti, e binari devastati fino a Segrate. Furono anche colpite numerose vie e piazze adiacenti gli scali attaccati, con un bilancio di 18 morti e 45 feriti.
Mattina del 29 marzo
Alle 12.15 si presentarono sulla città, ancora nel caos per l'attacco notturno, poco meno di 139 aerei (tanti erano partiti dalla Puglia, ma alcuni si erano dovuti ritirare prima di sferrare l'attacco). L'allarme fu dato col dovuto anticipo, alle 11.40, e le prime detonazioni si udirono su Lambrate, vero obiettivo del bombardamento. Distrutte risultarono cinque cabine di manovra, almeno 5 km di binari e impianti, tutta la linea di elettrificazione aerea, 5 locomotive e circa 500 vagoni. Anche se l'attacco si era rivolto al materiale rotabile, ci furono almeno 30 morti tra Rogoredo, via Corelli, via Tertulliano, e Ronchetto sul Naviglio. Anche in questa occasione la contraerea nulla poté: anche se in mano alla Flak tedesca, con l'ausilio della'AR.CO. (artiglieria contraerei), i risultati furono deludenti come quando era gestita dalla Dicat.
Mattina del 30 aprile
L'allarme suonò alle 11.38, a mezzogiorno iniziarono a cadere le prime bombe. I bombardieri si divisero in due gruppi, con due target precisi: la Breda, sezione costruzioni aeronautiche, e lo scalo Lambrate. La Breda risultò semi distrutta, lo scalo vide ridotti in cenere 32 locomotive, 100 vagoni, l'officina rialzo (più 22 interruzioni di binario).
Notte tra il 5 e il 6 aprile
Alle 20.50 aerei inglesi del 205° Group sganciarono bombe su Lambrate. Non risultano documentazioni ufficiali della missione, è ipotizzabile un errore di obiettivo.
Notte tra il 10 e l'11 luglio
Alle 23.45 vennero lanciati razzi illuminanti, data la forte foschia afosa presente nell'aria, poi 86 Wellington inglesi si scatenarono di nuovo su Lambrate: la volontà strategica era quella di annientare il principale scalo ferroviario di Milano, dal quale passavano le merci per le industrie convertite dai tedeschi alla produzione di materiale militare. Danni limitati.
Notte tra il 13 e il 14 luglio
Il 205° Group inglese inviò per distruggere Lambrate 89 aerei, e l'allarme suonò alle 23.32. Per la prima volta la contraerea riuscì a mettere in difficoltà i bombardieri, due dei quali vennero colpiti. I danni allo scalo risultarono facilmente rimediabili, proprio a causa della sfortuna che quella notte colpì gli Inglesi.
Fine Luglio e Agosto
In questi mesi estivi gli attacchi dal cielo si concentrarono sulle strade, sui mezzi di trasporto e sulle aziende del territorio intorno a Milano. Furono bombardati i ponti sul Ticino a Boffalora e a Turbigo, il ponte sull'Oglio a Palazzolo.Il 24 agosto due Liberator del 34° Squadron sudafricano gettarono su Milano volantini di propaganda.
Settembre
Nella notte tra il 5 e il 6 settembre furono sganciate tra bombe, che colpirono uno stabile in piazza Morbegno e la scuola di via Russo. Anche la Breda di Sesto San Giovanni fu centrata da alcune bombe di calibro minore.Nella notte tra il 10 e l'11 settembre molti apparecchi sorvolarono Milano, colpendo solo alcuni edifici privi di interesse strategico, probabilmente per un errore di posizione.
Mattina del 20 ottobre
Alle 11.14 fu dato il piccolo allarme, seguito troppo presto dal grande allarme, alle 11.24. Le prime bombe iniziarono a colpire alle 11.29, cioè un quarto d'ora. La popolazione non ebbe dunque il tempo di mettersi adeguatamente al sicuro. Le zone interessate furono quelle adiacenti lo scalo di Lambrate, con tragiche conseguenze sulla popolazione civile. Questo infatti fu il più straziante dei bombardamenti, per la distruzione della scuola elementare di Gorla. Qui, quando suonò il primo allarme, le maestre sollecitarono i bambini a riporre matite e quaderni nelle cartelle, e ad avviarsi nel rifugio sotterraneo. Tuttavia, durante la discesa delle scolaresche lungo le scale, suonò il secondo allarme, così inaspettato (visto che il primo era stato dato solo dieci minuti prima) da essere interpretato da taluni come il cessato allarme. Quando sulle scale, in un momento di grande incertezza e voci contrastanti, si trovarono ammassati all'incirca duecento bambini e il personale scolastico, cadde una bomba di (presumibilmente) 250 Kg, centrando in pieno la tromba della scale e il suo carico di piccole vite. Altre 170 bombe caddero sul quartiere e su Turro e Precotto, seminando stragi e lutti in intere famiglie. Alla fine dell'incursione, tra i bambini della scuola e le vittime civile dei quartieri colpiti, i morti furono circa 614.
Novembre
Il mese autunnale vide numerosissimi attacchi aventi però come obiettivo località attigue a Milano, quali Pero, Lodi, Codogno, prevalentemente per distruggere fabbriche o fermare convogli ferroviari. Anche la città subì sporadici bombardamenti, ma sempre bombe isolate, forse frutto di errori o di sganci di emergenza.
Dicembre
Come il mese precedente, continuarono attacchi su località del milanese, mentre la città venne sostanzialmente risparmiata (scalo Lambrate, deposito locomotive Greco, Breda, scalo Romana). Gli attacchi continui e sparpagliati degli ultimi mesi del 1944 avevano indotto nella popolazione grande timore ogni qual volta si dovesse organizzare uno spostamento con mezzi di trasporto (treni, tram extraurbani, ma anche corriere, auto private, carretti e perfino biciclette erano diventati gli obiettivi preferiti degli aeroplani).
Anno 1945
Milano iniziò l'ultimo anno di guerra in condizioni disperate ma ancora organizzata: si pensi alle numerose mense collettive predisposte dal Comune per supplire ai bisogni della cittadinanza, spesso impossibilitata a procurarsi il cibo o privata di una casa per cucinarlo. Se ne contavano in corso Indipendenza, in via Cimarosa, in via Verdi, in piazza Diaz (in un capannone che sorgeva dove ora c'è il giardino e il monumento ai Carabinieri), in piazzale Maciachini, in viale Padova, in piazzale Accursio. Intanto, tutte le città del Nord Italia risultavano ormai indifese, sotto i continui bombardamenti e mitragliamenti da parte dell'aviazione anglo-americana.
Gennaio
Milano subì numerosi piccoli attacchi, prevalentemente concentrati su scali ferroviari o su convogli appena usciti dalle stazioni. Si susseguivano incessantemente gli attacchi ai mezzi di trasporto, senza distinguere purtroppo fra treni che portavano merci e materiale militare in Germania (attraverso la Svizzera) e convogli carichi di operai e sfollati, come quel Gamba de Legn colpito da un caccia nella tratta fra Inveruno e Cuggiono (10 morti e 40 feriti).
Febbraio-Aprile
Ancora piccoli attacchi, per un totale di 14, che causarono circa 28 morti e una ottantina di feriti. Gli ultimi furono registrati il 12 (mitragliamento a raso lungo la via Manzoni) e il 13.Il 25 aprile, appena fattosi buio, Mussolini abbandonò Milano diretto a Como. Il 30 aprile entrarono in città le truppe anglo americane della Quinta Armata: la guerra era finita.
Conclusioni
I sessanta attacchi aerei sulla città di Milano causarono tra i 1200 e i 2000 morti.
Approssimativamente, la città perse un terzo delle proprie costruzioni, distrutte direttamente dalle incursioni, dagli incendi da queste causati o per le demolizioni successive resesi necessarie o giudicate più economiche dei restauri. Dall'immensa mole di macerie sgomberate dal suolo cittadino sorse la Montagnetta di San Siro al QT8 (il quartiere modello degli anni trenta). Ancora oggi tuttavia sopravvivono ruderi cittadini che ricordano i terribili attacchi (ad esempio, il palazzo a brandelli all'incrocio delle cinque vie, proprio all'imbocco di via Santa Marta).
Degli 80.000 alberi cittadini presenti nel 1942, al termine della guerra se ne censirono solo 30.000. Per diversi anni i senzatetto dovettero abitare nelle case-minime allestite dal Comune, edificate ai limiti della città, come quelle in viale Argonne, a metà della via Lorenteggio, a San Siro.
L'11 maggio 1946, alle ore 21, si inaugurò la rinata Scala, con il concerto diretto da Arturo Toscanini e musiche di Rossini, Verdi, Puccini, Boito.
Il primo gradino di una lenta normalità da ritrovare.
di Mauro Colombo

Luglio 1945: partigiani comunisti massacrano 54 persone nel carcere di Schio. A guerra già terminata.

TOGLIATTI AIUTA ALCUNI TRA GLI AUTORI DEL MASSACRO LASCIANDOLI ESPATRIARE.
"Disgraziati", sibilò Togliatti, Ministro della Giustizia del Gabinetto presieduto da Ferruccio Parri, con tono tra il disprezzo e la commiserazione. Fra una tarda mattinata del luglio avanzato del 1945. "Venire proprio lì, dove si amministra la cosiddetta giustizia dello Stato borghese", commentò il Ministro che era anche Segretario del Partito comunista. Gli avevo appena riferito della visita che avevo ricevuto nel mio ufficio del Ministero a via Arenula. "Siamo quelli di Schio", mi avevano detto quasi all'unisono tre visitatori, con il calcio malcelato di una pistola alla cintola.
"Fammi venire subito Bolle e Gallo", continuò Togliatti citando i due vice segretari Secchia e Longo con il loro nome cospirativo. Con loro, la riunione durò non più di dieci minuti. Li vidì uscire assieme tranquilli, senz'ombra di contrarietà. Togliatti mi passò uno dei soliti piccoli fogli sui quali veniva raccolto il verbale delle riunioni ordinarie della segreteria del Pci. Lo aveva compilato lui stesso con una specie abituale di ordine maniacale.
"Schio", c'era scritto a sinistra, poi in colonna a destra due altre righe: "Trasferire in luogo sicuro". Colpevolmente non obiettai nulla, in preda alla mia isolata precipitazione. "Parlane subito con Matteo", concluse Togliatti con la calma riservata ad una pratica di ordinaria banalità. Matteo, fratello di Pietro Secchia, era incaricato di tenere i rapporti con due funzionari dell'NKVD, la polizia sovietica, che figuravano tra i diplomatici di rango dell'ambasciata dell'Urss, di via Gaeta a Roma. "Boia faus, porco boia, ma sti chi, i ien una brigata, stanno diventando un esercito. Ogni giorno arriva qualcuno che deve partire in fretta", ripete Matteo con una sorta di curiosità distaccata, espressa in piemontese. Tornai al ministero, infilandomi a perdifiato da via delle Botteghe Oscure nel viale che sboccava sul Ponte Garibaldi. Vi trovai, in attesa nel mio uffticio, i tre di Schio e dissi ansimando:
"La Segreteria ha deciso: Praga".
Li vidi qualche anno dopo. Uscivo con Togliatti e la Jotti dalla Tynsky chram, la chiesa di Tyn in Stare Mesto, la Città Vecchia della capitale cecoslovacca. Uno di loro mi venne incontro. "Ti ricordi di me? Sono dì Schio", disse guardando anche Togliatti. Il partigiano cavò di tasca e mostrò la tessera del partito comunista italiano del 1947, con i bollini mensili tutti regolarmente applicati. Fra quella di un normale iscritto al Pci, in trasferta coatta all'estero. Aveva sparato, colpito, veniva ricercato, ma era stato assolto dal Partito e dal Partito aveva ottenuto una copertura "logistica". Si rivolse di nuovo a Togliatti e gli disse: "Torneremo presto in Italia, dopo la vittoria alle elezioni".
Togliatti girò lo sguardo altrove, ormai disinteressato, come dinanzi ad un innocuo ma fastidioso fantasma.
Il fantasma aveva fatto materialmente parte di una ventina di uomini che s'erano riuniti, la notte del 6 luglio 1945, a Schio, una cittadina in collina, venticinque chilometri a nord dì Vicenza, in un parco, la Valletta dei Frati', appena fuori dal centro. Erano ex partigiani dei battaglioni "Ramina Bedin", "Ismene", della divisione garibaldina "Ateo Garemi" e della Polizia ausiliaria, istituita alla fine della guerra,' in maggioranza comunista. Avevano come nome di battaglia "Teppa", "Morvan", "Gandhi",, "Quirino', "Terribile", "Guastatore" e altri ancora, che riconoscevano, assieme, la supremazia del comandante Igino Piva, detto "Romero". Ad un segnale, convenuto, un colpo di fischietto, con la parte inferiore del viso coperta da grandi fazzoletti, fecero irruzione nel carcere locale, immobilizzarono i guardiani, Pezzin e Girardin, e spararono, al pianoterra e al secondo piano, mitragliando i prigionieri a distanza ravvicinata. Uccisero 47 persone e ne ferirono 24, mentre altre 7 morirono in seguito in ospedale. In totale 54, di cui 14 donne. Nessuno di loro era allo stato legalmente incriminato, ma solo sospettato di essere iscritto al Partito fascista repubblicano, anche per banali incarichi amministrativi. Il 9 luglio giunse a Schio il generale americano Dunlop, comandante dell'AMG per il Veneto, accompagnato da altri ufficiali. Il generale, al termine di una formale inchiesta, parlò chiaramente di "violenza rossa premeditata", come la Corte di Assise di Milano confermò il 13 novembre 1952, identificando tutti i partigiani responsabili. "L'Unità" aveva parlato di gruppi incontrollati, poi li aveva definiti ingiustificatamente trotzskisti, quindi nemici del Partito comunista italiano. Ma la stampa di partito aveva in precedenza inveito anche contro i simpatizzanti locali del passato regime: "Sterminiamoli, arrestiamoli, fuciliamoli". Nel voluminoso libro di un eminente storico di sinistra, Claudio Pavone, sulla Resistenza, pubblicato dieci anni fa, dei fatti di Schio non si trova menzione. L'amnistia del Guardasigilli Togliatti del 1946 alla fine salvò i responsabili del più vasto eccidio perpetrato durante il prolungato periodo della "resa dei conti" dopo la cessazione della guerra: un fiume complessivo dì sangue di oltre 15 mila vittime della politica della violenza e del rancore di classe.

E Mengele decolorò con l’acido gli occhi degli zingari biondi

Sette coppie di gitani “ariani” furono sottoposti a esperimenti atroci dal medico SS mentre una pittrice ebrea era costretta a ritrarli. Ora le loro storie riaffiorano dagli archivi
L’occhio era molto importante, spiegò il dottor Mengele: lavorando con bisturi e solventi sull’iride, si poteva trasformare in grigia o in azzurra, da nerastra che era. Infatti quelli erano zingari «buoni». I loro avi non erano forse partiti dall’India del Medioevo, dove già si venerava la svastica? E nei loro 60 dialetti non c’era ancora un po’ di sanscrito, di punjabi e bangali? Dunque erano indoeuropei: pochissimi, quasi sempre «asociali»; ma ariani. E come gli ariani veri, come Mengele o Hitler, non potevano avere occhi neri, ma azzurri: nei laboratori di Auschwitz, iniziarono così gli esperimenti. «Tutti lo sapevano. E me li ricordo bene, i gitani "puri"», racconta la pittrice ebrea Dina Gottliebova, «perché Mengele mi obbligava a ritrarli, mentre lui misurava i crani. Gli altri, i "misti", dopo un po’ che arrivavano non li vedevamo più». Furono 20.078 gli zingari morti ad Auschwitz, su 23 mila internati. E circa mezzo milione in tutta l’Europa, forse il 90% del totale: si chiamò Porraimos, in gitano «grande divoratore»; lo sterminio dei Rom, dei Sinti, dei «manush» (dal tedesco «mensch», «uomini», così li chiamavano in Germania). Eccoli, i loro ritratti dipinti da Dina, come li ha mostrati all'America la Tv pubblica Pbs, in 57 minuti di documentario intitolato Porraimos: gli zingari d'Europa nell’ Olocausto. Volti tristi o rabbiosi, musiche di violini zigani, poi corpi che si affacciano da foto in bianco e nero o filmati girati da «cineama­tori» delle SS. E bambini che giocano, senza sapere. Nell'agosto 1944, ad Auschwitz, quelli del «popolo del vento» erano quasi tutti morti. Nel loro settore rimasero 7 coppie di gemelli, scelti da Mengele per studi di «eugenetica», insieme con un altro medico e due «infermieri». E con Dina Gottliebova: «Da bambina, nelle campagne cecoslovacche, gli zingari li avevo visti passare in carovana, mi affascinavano. Li ritrovai là ad Auschwitz. Dipingevo le baracche dei loro bambini con scene di prati e montagne, o con figure di Biancaneve». Anche i bambini morivano, come raccontano alle telecamere altri sopravvissuti. Una donna descrive dei prigionieri obbligati a tuffarsi in uno stagno: e i piccoli zingari che non sapevano nuotare abbandonati a se stessi dalle guardie, e i genitori costretti a non intervenire. I ragazzini che riuscivano a toccare la riva dovevano poi raccogliere legna per bruciare i corpi fradici degli altri. «Mia madre», racconta un'altra testimone, «partorì me e mia sorella gemella senza problemi. Ma poi lei fu sterilizzata e noi fummo portate via, dai genetisti che volevano studiarci. L'ultima volta che vidi mia sorella, fu in una di quelle cliniche». Queste testimonianze coincidono in parte con quelle dei verbali di Norimberga, diffusi su Internet dall'Università di Harvard. Furono circa 30 mila gli zingari catalogati dagli studiosi nazisti che giravano di lager in lager alla ricerca del «gitano buono». Himmler, il capo supremo delle SS, ne era certo: «I gitani puri vanno messi in riserve speciali, per la loro presunta origine ariana». Gli altri furono inghiottiti dalla storia. Che ancor oggi discute sulla loro sorte: per alcuni studiosi la persecuzione nazista fu motivata da discriminazioni sociali, culturali ed economiche, più che da vero odio di razza. Per altri, il fattore razzista prevalse. Scrive Michael Burleigh nella sua Storia del Terzo Reich: «Nel 1930, alcuni residenti a Francoforte sul Meno si lamentarono degli "zingari" che si trovavano fra loro. Sporcavano la zona con rifiuti organici, disturbavano con zuffe. Quando le autorità cittadine lasciarono che il problema si trascinasse, fu il Partito nazista a occuparsi della situazione». Chiunque abbia ragione, trionfò il Porraimos, il grande divoratore. «Questa gente discende dai paria indiani», diceva Robert Ritter, direttore dell'Ufficio per l’igiene razziale. «Sono inclini alla criminalità». Per Adolf Eichmann, il ragioniere dell'Olocausto, bastava aggiungere «4 vagoni ai treni con gli ebrei», e tutto si sarebbe risolto. «I fascisti cacciavano gli zingari come selvaggina», scrive Anatoly Kuznetsov raccontando la strage di Babi Yar, dove il 29-30 settembre 1941, insieme con 33.371 ebrei, furono sterminate anche intere tribù gitane. Nell'inverno ‘42, da Simferopoli in Crimea, il comandante dell'Unità speciale Einsatzgruppe D riferiva a Berlino che «qui il problema è stato risolto»; ultimo rendiconto: «Giustiziati 810 elementi». L’ 8 aprile ‘42 tutta la Crimea veniva dichiarata «libera da ebrei e zingari»: e «la popolazione non ha mostrato alcuna particolare ansietà sul fatto che gli zingari abbi­ano dovuto condividere il fato degli ebrei». Del resto anche Heinrich Lohse, commissario del Reich per il Baltico, era stato chiaro nel suo «ordine confidenziale del 24 dicembre 1941» alle SS: «Gli zingari che vagabondano per il Paese sono un doppio pericolo. Possono avere malattie, il tifo. Sono inaffidabili, non si può dare loro un lavoro utile. E danneggiano la causa germanica diffondendo notizie ostili. Ordino perciò che siano trattati nella stessa maniera degli ebrei».
di Luigi Offeddu. Da Sette/Corriere della sera, 25 settembre 2003

In Urss ottant´anni fa nascevano i gulag

Che cosa resta della tragedia dei Gulag.
Nel 1926 il lavoro forzato e la reclusione di massa divennero un sistema.
Oggi il mancato confronto con quella realtà agisce da ostacolo alla crescita civile.
ANNE APPLEBAUM
Dalla sommità del campanile del vecchio monastero Solovetsky, nella Russia settentrionale, si scorge ancora il profilo del campo di concentramento. Salendo lassù in una giornata limpida sono riuscita a vedere al di là dello spesso muro di pietra che circonda gli edifici del monastero del XV secolo, un tempo sede dell´amministrazione centrale del campo. A nord distinguevo la sagoma della chiesa in cima alla collina i cui sotterranei ospitavano le famigerate celle di punizione del campo.
Al di là delle colline e dei dock si estende la vasta superficie del Mar Bianco e il resto delle isole Solovetsky: Bolshaya Muksulmana, dove un tempo i prigionieri allevavano volpi per ricavarne pellicce, Anzer, che ospitava campi speciali per invalidi, donne con bambini ed ex monaci, Zayatskie Ostrov, sede del campo punitivo femminile.
Non a caso lo scrittore russo Alexander Solgenitsyn scelse di chiamare la sua storia del sistema dei campi di concentramento sovietici Arcipelago Gulag. Dopo tutto Solovetsky, primo campo specificamente ideato per i prigionieri politici, era un vero e proprio arcipelago, un carcere che crebbe espandendosi di isola in isola.
Solovetsky fece anche da modello a ciò che in seguito divenne noto come gulag. Anche se Lenin e Trotsky iniziarono a costruire campi di concentramento per prigionieri politici già a partire dal 1918, fu a Solovetsky che si procedette a meccanizzare e riprogettare il campo e fu lì che la polizia segreta sovietica iniziò a sfruttare il lavoro dei prigionieri a servizio dello Stato. E lo Stato ne andava fiero. In un articolo del 1945, un pezzo grosso del Nkvd, la polizia segreta sovietica, scrisse orgoglioso che «il lavoro forzato come metodo di rieducazione» iniziò a Solovetsky nel 1926. Quest´anno cade quindi l´ottantesimo anniversario della fondazione del Gulag.
L´origine del Gulag si può fare almeno in parte risalire al personaggio di Naftaly Aronovitch Frenkel, nato nel 1833 a Haifa, come risulta dalla sua scheda di prigioniero. Nel 1923 le autorità lo arrestarono per «transito illegale alla frontiera» condannandolo a dieci anni di lavoro duro a Solovetsky.
Come Frenkel sia riuscito a realizzare la metamorfosi da prigioniero a comandante del campo resta un mistero. Leggenda vuole che, giunto al campo, rimase sconvolto dalla mancanza di organizzazione che vi regnava tanto da scrivere una lettera in cui indicava con precisione le pecche di ciascuna delle attività produttive del campo, che includevano la selvicultura, l´agricoltura e la fabbricazione di laterizi. A quanto sembra un amministratore inviò la lettera a Stalin che convocò Frenkel a Mosca.
Sappiamo che Frenkel tentò di trasformare il campo in una fonte di profitto istituendo il famigerato sistema che destinava ai prigionieri razioni di cibo differenziate in accordo alla quantità di lavoro portato a termine, realizzando in pratica una selezione dei prigionieri in base alla capacità di sopravvivenza. Relativamente ben nutriti i prigionieri forti si rinvigorivano. Privati del cibo i prigionieri deboli si ammalavano o morivano. Il processo veniva accelerato dall´elevato ritmo di attività imposto.
Frenkel mandava i prigionieri a costruire strade e tagliare alberi fuori dal campo. Nel giro di pochi anni I prigionieri di Solovetsky lavoravano in tutta la regione. Stalin accolse questo corso con enorme entusiasmo e promosse l´espansione del sistema dei campi anche nel momento in cui fu chiaro a tutti che si trattava di un sistema non solo crudele, ma anche antieconomico. Impose l´esecuzione di progetti impraticabili, ferrovie attraverso la tundra, gallerie fino all´isola di Sakhalin, molti dei quali non furono mai completati. Inviò ai campi particolari "nemici" e rifiutò personalmente le loro domande di grazia spesso con la frase «fateli continuare a lavorare».
Oggi, a 80 anni di distanza, sappiamo quale fu il vero costo del sistema dei campi. Tra il 1926 e il 1953, anno della morte di Stalin, circa 18 milioni di prigionieri passarono attraverso il sistema del Gulag. Altri sei o sette milioni furono inviati al confino in località dell´estremo Nord. A milioni si ammalarono, a milioni morirono. I campi contribuirono a creare la paura e la paranoia che caratterizzarono la vita dell´Urss e distorsero l´economia sovietica, concentrando persone e industrie nel nord gelido e inabitabile.
Considerando l´orribile ruolo giocato dai campi nella storia dell´Unione Sovietica, ci si domanda come mai in Russia il retaggio del Gulag sia un tema così scarsamente dibattuto. Perché una data come l´ottantesimo anniversario della fondazione dei campi di Solovetsky non viene ricordata? Sorgono disseminati per la Russia vari monumenti a ricordo delle vittime del Gulag, ma non esiste un monumento nazionale o un luogo di lutto. Peggio, a quindici anni dal crollo dell´Unione Sovietica è assente qualunque dibattito pubblico sul gulag. Non è stato sempre così. Negli anni ‘80, all´inizio della glasnost in Russia, le memorie dei sopravvissuti del Gulag vendettero milioni di copie. Ma negli ultimi tempi i libri di storia che contengono simili "rivelazioni" ottengono recensioni negative o passano semplicemente sotto silenzio.
In un certo senso non è difficile spiegarne il motivo. In Russia, la memoria dei campi convive confusa con quella di un gran numero di altre atrocità: la guerra, la carestia e la collettivizzazione. La gente spesso mi chiede: «Perché i sopravvissuti dei campi dovrebbero godere di un trattamento privilegiato?». C´è chi poi associa il dibattito sul gulag alle riforme economiche e politiche degli anni ‘90, giudicate un pasticcio, e si chiede dove tutto questo abbia portato. Assai più significativo è il fatto che la Russia è attualmente governata da ex funzionari del Kgb, eredi diretti degli amministratori del Gulag. In realtà il presidente Vladimir Putin spesso si definisce un Chekista, il termine infame usato per indicare gli appartenenti alla polizia politica di Lenin, precursori del Kgb. Non è nel suo interesse sottolineare il fatto che era membro di un´organizzazione criminale.
Tragicamente il mancato confronto con il passato sta ostacolando la formazione della società civile russa e dello stato di diritto. Dopo tutto i capi del Gulag hanno mantenuto le loro dacie e le loro cospicue pensioni. Le vittime del Gulag sono rimaste povere ed emarginate. Agli occhi della maggioranza dei russi oggi è stata una scelta saggia collaborare in passato con il regime. Per analogia, quanto più si imbroglia e si mente, tanto più si è saggi.
Alcune delle ideologie del Gulag sopravvivono in senso profondo anche nell´atteggiamento sprezzante e arrogante che la nuova élite russa ha nei confronti dei poveri e della classe media. Se i ricchi non impareranno a rispettare i diritti umani e civili dei loro connazionali la Russia è destinata a restare una terra di contadini impoveriti e di politici miliardari, uomini che conservano i loro patrimoni nei caveau delle banche svizzere e hanno i jet privati in pista, pronti al decollo.
La mancata memoria del passato ha inoltre conseguenze più banali, di tipo pratico. Può servire a spiegare, ad esempio, l´insensibilità dei russi rispetto a determinate forme di censura e alla costante, opprimente presenza della polizia segreta, oggi ribattezzata Fsb. Il fatto che la Fsb possa intercettare conversazioni telefoniche ed entrare in abitazioni private senza mandato non turba più di tanto i russi. Né li turba l´inquietante orrore del loro sistema penale. Nel 1998 mi recai a visitare la prigione centrale della città di Arkhangelsk, un tempo una delle capitali del Gulag. Il carcere, risalente a epoca pre-stalinista, sembrava rimasto pressoché immutato. Le celle erano affollate e mal areate, i servizi igienici primitivi. Il responsabile del carcere si strinse nelle spalle. Era tutta questione di soldi, mi disse. I corridoi erano bui perché l´elettricità costava cara, i prigionieri restavano settimane in attesa di processo perché i giudici erano mal pagati. Non mi convinse. Se le prigioni russe hanno ancora l´aspetto che avevano all´epoca di Stalin, se i tribunali e le indagini penali sono una messinscena è in parte perché il passato non tormenta i giudici, i politici o le élite imprenditoriali russe.
Ma pochissimi nella Russia di oggi sentono il passato come un fardello o un dovere. Il passato è un brutto sogno da dimenticare. Come un grande vaso di Pandora chiuso in attesa della generazione successiva.
(La Repubblica, VENERDÌ, 10 NOVEMBRE 2006, Pagina 55 – Varie)
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